In Anti & Politica, Libertarismo, Primo Piano

DI MATTEO CORSINI

“Deve dunque accettarsi la tesi di Robert Reich secondo cui l’eccessiva  tutela del consumatore uccide i diritti democratici dei cittadini? Forse sì, se con la decisione di lunedì scorso la corte suprema degli Stati Uniti ha rigettato la class action per risarcimento del danno nei confronti di ben un milione e mezzo di dipendenti donne della Wal-Mart, discriminati pesantemente nei salari e nei posti di lavoro. Una prova deludente della democrazia americana.” (G. Rossi)

Da qualche tempo il Sole 24 Ore pubblica ogni domenica un editoriale scritto da Guido Rossi, un signore che ha sempre criticato da sinistra il sistema italiano di fare impresa (e non solo), ma che grazie a quel sistema ha ottenuto notevoli successi professionali ed economici.

Occupandosi di antitrust e difesa del consumatore, Rossi critica il (pur) democratico Robert Reich e sostiene che la decisione della Corte suprema americana di rigettare la possibilità di promuovere una class action da parte delle dipendenti di Wal-Mart sia stata una “prova deludente della democrazia americana”.

In sintesi, la Corte suprema ha stabilito che se una dipendente si sente discriminata deve promuovere un’azione individuale nei confronti del datore di lavoro. Un principio che a me pare di buon senso, dato che ogni individuo è diverso dagli altri e che, di conseguenza, diverse (ancorché simili a quelle di altri) sono le sue vicissitudini lavorative.

Devo precisare che a me non piace il concetto stesso di class action, che mi pare per lo più uno strumento di ricatto utile a ingrassare gli avvocati e le associazioni di consumatori. Nel caso specifico, le dipendenti che hanno fatto causa a Wal-Mart sostengono di essere discriminate nelle possibilità di carriera e, a parità di ruolo, nella retribuzione. Una musica che suona più o meno allo stesso modo in tutto il mondo, e che è altamente sconsigliabile mettere in discussione, se non si vuole essere scomunicati dai sacerdoti e soprattutto dalle sacerdotesse del politicamente corretto e delle pari opportunità (per legge).

A sostegno della tesi della discriminazione si portano statistiche che dimostrerebbero che le donne guadagnano, a seconda dei casi, tra il 20 e il 30 per cento in meno degli uomini a parità di ruolo in azienda. Ovviamente si tratta di grossolane medie dei polli, ma l’importante non è disporre di dati accurati, bensì avere dei numeri a supporto della tesi che si intende spacciare per verità incontestabile.

Non intendo negare che esistano casi di effettiva discriminazione, ma per come viene presentato il fenomeno da parte dei paladini delle pari opportunità sembra che gli imprenditori siano tutti autolesionisti. Pur di discriminare le donne, sarebbero disposti a sostenere un costo del lavoro superiore del 20-30 per cento. Critica che mal si concilia con quella, proveniente più o meno dagli stessi ambienti, in base alla quale le imprese cercano solo di massimizzare il profitto (Wal-Mart in primis).

Posto che, a mio parere, ognuno deve essere libero di scegliere chi assumere, quale carriera fargli fare e come pagarlo (nel libero mercato sono i profitti e le perdite a segnalare eventuali errori nella gestione del personale), credo che si possa escludere l’ipotesi di autolesionismo di massa da parte delle imprese. La differenza nelle retribuzioni medie, quindi, potrebbe essere spiegata, se non da una maggiore qualità, da una maggiore quantità di lavoro mediamente offerta dagli uomini.

A questo punto l’obiezione classica è che le donne spesso si occupano anche dei lavori domestici e della cura dei figli o dei familiari anziani. Il che è indubbiamente vero, ma questo conferma la spiegazione appena ipotizzata. E non si vede per quale motivo un’impresa dovrebbe pagare anche il lavoro che una donna svolge a beneficio dei propri familiari. Sarebbe quella la democrazia?

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