In Anti & Politica, Economia

DI MATTEO CORSINI*

“Con la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio la politica non potrà più scegliere: Keynes sarà anticostituzionale. Non si potrà sostenere la domanda per far ripartire l’economia. Il rigore economico, infatti, in una situazione di crisi produce recessione e peggiora i conti pubblici. Ricordo che per questo motivo cinque premi Nobel dell’economia hanno scritto un appello a Obama contro l’ipotesi di inserire il pareggio di bilancio nella costituzione americana. Il dogma del pareggio di bilancio è una teoria di destra. Impedisce di perseguire la piena occupazione, impone la privatizzazione dei servizi pubblici e delle imprese statali per fare cassa e favorisce lo smantellamento dello stato sociale.” (O. Diliberto)

Sono tante le voci critiche riguardo alla modifica dell’articolo 81 della Costituzione per prevedere il pareggio di bilancio. Ho scelto quella di Oliviero Diliberto, segretario nazionale del Pdci, ma avrei potuto benissimo citare persone dell’altra parte politica, ad esempio Renato Brunetta, che è contrario al Fiscal Compact (versione europea del pareggio di bilancio). Devo premettere, peraltro, che anche io ho qualche dubbio sulla formulazione che dovrebbe assumere l’articolo 81, perché le eccezioni sono formulate in modo vago e, soprattutto, perché non tutti i pareggi sono uguali. In sostanza, un bilancio può essere in pareggio con bassi livelli di tasse e spesa pubblica, oppure con livelli esorbitanti delle une e delle altre.

In questa seconda ipotesi – che purtroppo temo sarà quella più verosimile al caso italiano se davvero il pareggio di bilancio verrà un giorno raggiunto e non resterà solo uno dei tanti obiettivi mai realizzati dai governi che si sono succeduti al potere – sono possibili, a mio parere, almeno due obiezioni: una di tipo etico, l’altra basata sull’esperienza storica. Tanto maggiore è la pressione fiscale quanto più risultano compressi i diritti di proprietà dei cosiddetti contribuenti. Se si dà importanza alla libertà degli individui, un bilancio pubblico in pareggio caratterizzato da livelli elevati tanto di spesa quanto di tasse non è eticamente equivalente a un bilancio in pareggio grazie a poca spesa e tassazione ridotta. Considerando l’esperienza storica, poi, all’aumentare della spesa pubblica in rapporto al Pil, diminuiscono le probabilità di avere un bilancio in pareggio, anche perché la tassazione elevata, sottraendo cospicue risorse al settore privato, riduce il potenziale di crescita del Pil.

E qui veniamo ai lamenti sulla presunta futura anticostituzionalità di Keynes e sulla rinuncia alla sovranità fiscale. Keynes, in realtà, non sarà anticostituzionale (se non fossi libertario, mi verrebbe da dire: purtroppo!), né verrà espulso dalle facoltà di economia, dove non viene certo trascurato, ancorché i keynesiani siano abituati a lagnarsi (cosa dovrebbero dire gli economisti austriaci a tale proposito?). Sarà possibile andare in deficit “solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta, al verificarsi di eventi eccezionali”. In buona sostanza, quando il ciclo economico sarà negativo e/o ci saranno circostanze eccezionali (e sappiamo che a individuare l’eccezionalità i politici sono maestri indiscussi), sarà possibile fare deficit. Credo che questo non si discosti eccessivamente dall’idea originaria di Keynes, il quale non predicava di spendere in deficit in ogni circostanza come invece è stato fatto negli ultimi settant’anni e come ho l’impressione amerebbero fare i keynesiani all’amatriciana di casa nostra. Io non credo, tra l’altro, che lo Stato debba usare la politica fiscale per tentare di stimolare la crescita dell’economia intera o di alcuni settori.

Lo Stato non è onnisciente; al contrario, è fatto di persone che hanno conoscenze inevitabilmente limitate. Quand’anche fossero ispirati dalle migliori intenzioni, l’esito certo sarebbe una compressione della libertà degli individui e non vi sarebbe creazione di nuova ricchezza, tutt’al più una redistribuzione di quella esistente, che in parte verrebbe assorbita dall’intermediazione burocratica. Purtroppo decenni di keynesismo applicato dimostrano che l’attivismo dello Stato tende a generare un apparato ipertrofico e inefficiente; lo stesso stato sociale ha alimentato parassitismi ormai insostenibili, pressioni fiscali crescenti e, ciò nonostante, debiti pubblici esorbitanti. Quanto alla piena occupazione, non se ne vede traccia.

Qualcuno potrebbe ribattere che non si è trattato di keynesismo, oppure che è stato un keynesismo mal applicato. Sulla prima obiezione credo che manchino i fatti a supporto: si sostiene spesso che la situazione attuale sarebbe un fallimento del libero mercato, ma se si facesse lo sforzo di leggere qualche libro scritto da liberali autentici (se si vogliono evitare letture troppo impegnative, suggerirei “L’economia in una lezione” di Henry Hazlitt, recentemente tradotto e pubblicato in italiano dall’Istituto Bruno Leoni) ci si renderebbe conto che il libero mercato è il grande assente della storia economica del Novecento e del nuovo secolo, in cui gli economisti più influenti sono stati keynesiani, monetaristi o neoclassici. Tutti accomunati, aldilà delle divergenze di opinioni su diverse tematiche, dal favorire forme più o meno intense di interventismo da parte dello Stato.

Quanto alla seconda obiezione, credo in effetti che la Teoria Generale di Keynes sia stata abusata da chi l’ha voluta mettere in pratica. Tuttavia, penso anche che, nella migliore delle ipotesi, si tratti di una conseguenza della “presunzione fatale” (per dirla con Hayek) sulla quale è basata la teoria keynesiana, ossia che il governo, meglio se guidato o ispirato da tecnocrati, sia in grado di indirizzare l’economia verso la crescita e la piena occupazione manovrando le leve fiscali e monetarie.

Venendo alle possibili conseguenze dell’obbligo di pareggio di bilancio, contrariamente a Diliberto non considererei affatto una sciagura la privatizzazione delle imprese possedute dallo Stato o dalle amministrazioni locali, né il ridimensionamento dello stato sociale. Temo, però, che senza porre un limite costituzionale alla spesa pubblica in rapporto al Pil (e, di conseguenza, alla pressione fiscale) su livelli molto al di sotto di quelli attuali (a tendere, dovrebbero almeno dimezzarsi), il pareggio di bilancio resterà difficile da raggiungere in maniera strutturale. E ogni volta che sarà necessario fare una manovra di aggiustamento dei conti pubblici l’aumento delle tasse sarà superiore al contenimento della spesa, come è stato in tutti questi anni.

Stia tranquillo Diliberto: Keynes è lungi dal rischiare l’anticostituzionalità. Siamo noi a rischiare grosso…

 

* Link all’originale: http://www.lindipendenza.com/pareggio-bilancio-keynes/

 

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Comments
  • Dexter

    Nel nuovo articolo sul pareggio di bilancio della Costituzione non è stato introdotto il tetto alla spesa pubblica rispetto al PIL (dunque = pressione fiscale).
    Questo si traduca in più tasse.
    Un tetto del 40% di spesa pubblica rispetto al PIL sarebbe comunque alto ma ragionevolissimo visti i tempi ! Invece la spesa pubblica oggi è al 52% del PIL, dunque significa che per pareggiare 800 miliardi di spesa, dovremo subire 800 miliardi di tasse, una pazzia !
    Il fiscal compact europeo è una pazzia, perché gli stati lo raggiungeranno aumentando le tasse e non diminuendo la spesa pubblica, ci aspetta un disastro.

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