La storia del Libertarismo

La vicenda del libertarismo o libertarianism, ha avuto inizio negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta.
È solo nell’epoca tumultuosa della contestazione studentesca, infatti, che si sono pienamente manifestate alcune contraddizioni presenti all’interno dell’Old Right americana, che era venuta costituitendosi tra le due guerre per contrastare il New Deal dirigista di Roosvelt e il declino della tradizione americana autenticamente liberale.

Dalla crisi della coalizione politica e culturale moderata, che per molti anni si era opposta alla sinistra interventista e al Partito Democratico, iniziò ad emergere un orientamento intellettuale che radicalizzava il liberalismo di marca jeffersoniana e che finì per adottare, al fine di distinguersi e caratterizzarsi, la definizione di libertarismo.

Non è certo casuale, a questo riguardo, che autori avversi al Welfare State in politica interna e isolazionisti in politica estera come Albert J. Nock (1870-1945) e Frank Chodorov (1887-1966) siano tra i più ammirati da Murray N. Rothbard (1926-1995) e dagli altri esponenti intellettuali di questo liberalismo integrale.

Di una corrente politico-culturale libertarian si può parlare in senso proprio a partire dal noto meeting del 1969 della Y.A.F. (Young Americans for Freedom), l’organizzazione giovanile repubblicana che in quell’anno si divise tra sostenitori ad oltranza del libero mercato e conservatori, tra fautori dei diritti individuali assoluti e ardenti difensori dei valori tradizionali.

Lo scontro non poteva essere più netto, dato che da un lato finirono per collocarsi coloro che erano contrari all’impegno bellico in Vietnam, favorevoli alla liberalizzazione delle droghe e allarmati dal peso crescente del governo nelle vita dei cittadini; dall’altro gli esponenti di una destra legata alla maggioranza silenziosa, ad una certa concezione militarista della Nazione e sensibili alle influenze del fondamentalismo religioso.

Da una parte – insomma – si situarono gli anarchici liberali, dall’altra gli anti-comunisti conservatori.
Da quel momento inizia a delinearsi un’area d’opinione che si definisce libertarian e da cui scaturirà, qualche anno dopo, anche una formazione politica organizzata: il Libertarian Party.

Il principale riferimento intellettuale di questo universo politico-culturale è Murray N. Rothbard, uno tra i massimi economisti di questo secolo, ma soprattutto l’autore di fondamentali testi di filosofia politica e di storia del pensiero economico con i quali ha offerto una rilettura in chiave giusnaturalista del liberalismo cosiddetto austriaco.

Già allievo di Ludwig von Mises (1881-1973), Rothbard è stato lo studioso che con più radicalismo ha interpretato i principi cardinali della tradizione liberale, creando una vera e propria scuola e convertendo all’idea dei diritti naturali inviolabili anche molti autori che, in origine, avevano impostazioni differenti: variamente contrattualiste o utilitariste.

Ma quali sono i tratti più caratteristici di questa linea di pensiero che, negli ultimi anni, comincia a trovare adepti anche fuori dall’America settentrionale? Va subito detto che le caratteristiche di questa vasta area culturale libertarian – entro la quale si collocano numerose fondazioni, riviste, associazioni, ecc. – sono alquanto originali e, agli occhi di un osservatore europeo, perfino sorprendenti.

Il libertarian è un individuo, infatti, che difende il capitalismo puro e che dunque si batte contro ogni intervento dello Stato in campo economico e sociale, che crede nel diritto a portare armi, che avversa ogni politica proibizionistica in materia di droga o alcol, che ama schierarsi dalla parte di quelle sette e di quelle comunità che vedono limitate dal governo la loro libertà di azione e di predicazione.

Chi abbia letto Difendere l’indifendibile di Walter Block, un testo tanto brillante quanto divertente e intelligente, avrà avuto modo di scoprire che per il libertarismo sono attività legittime quella dell’usuraio, della prostituta, dello spacciatore, del mercenario, del pornografo, dell’esportatore di capitali, dell’evasore fiscale, dello speculatore, ecc. E sono legittime perché non ledono i diritti altrui.

Se interpretato secondo le categorie della politica di tipo europeo, il libertario americano potrebbe essere al tempo stesso unultrà del conservatorismo thatcheriano e un esponente del progressismo più estremo: favorevole ai diritti dei gay e dei tossicodipendenti.

Ma in realtà egli non è niente di tutto ciò: è semplicemente un liberale coerente, rigoroso, nemico della coercizione.
I fautori del libertarismo, infatti, ritengono che si debba essere favorevoli alla libertà in ogni ambito: in economia, certamente, ma ugualmente in quelle questioni che riguardano le cosiddette libertà civili.

La teoria libertaria contemporanea, insomma, estende l’area d’azione del liberalismo anche a quei settori (la giustizia, la protezione, ecc.) che i liberali classici giudicavano invece come tipicamente statali. Secondo quello che Rothbard chiama l’assioma di non aggressione, d’altro canto, nessuno può violare i diritti altrui e l’unico ordine sociale legittimo è quello che emerge dalla concorrenza e dal rispetto delle altrui prerogative.

In questo senso, per i libertari ha perfettamente ragione Proudhon nel momento in cui afferma che l’ordine è figlio della libertà. Essi pensano che bisogna contrastare l’aggressione (fisica, fiscale, ecc.) di alcuni uomini su altri uomini, ma sono ugualmente convinti che per fare questo sia necessario affidarsi ad un’antica e anonima invenzione umana, la cui origine rimonta alla notte dei tempi: la concorrenza.

Secondo il libertarismo, allora, è necessario che le vecchie istituzioni pubbliche lascino il posto ad ordinamenti legali scelti dalla gente entro un mercato competitivo.
Benché questa filosofia politica non sia ancora molto nota in Europa e quasi del tutto sconosciuta in Italia, essa occupa un ruolo non marginale negli Usa: soprattutto nell’ambito delle università e della cosiddetta business community.

Ed è significativo, a tale riguardo, come il Libertarian Party (che ha avuto e ha ancora un ruolo rilevante nella divulgazione delle tesi del liberalismo integrale) a partire dalla metà degli anni Settanta si sia presentato ad ogni importante appuntamento elettorale, collocandosi quasi sempre quale terza forza politica statunitense: anche se a notevole distanza dal partito democratico e da quello repubblicano.

Alle origini del Libertarismo americano

Questo appartiene alla cronaca e, per taluni aspetti, anche alla storia.
Ma non c’è alcun dubbio che dietro a tali avvenimenti vi è una complessa evoluzione di idee e un animato susseguirsi di dibattiti intellettuali. Quella che ha iniziato ad imporsi circa trent’anni fa non è una teoria politica senza antecedenti, né senza punti di riferimento.

Come ha sottolineato Pierre Lemieux, il pensiero libertario degli anarco-capitalisti «si presenta come il limite e il matrimonio di due dottrine: la libertà dell’anarchismo si estende all’economia e la libertà capitalista invade il sociale e le condizioni di base della vita in società».

Si tratta, in altre parole, di una congiunzione dell’anarchismo e del capitalismo. Nel libertarismo, insomma, il liberalismo classico di Locke (1632-1704) incontra l’anarchismo individualista americano di autori come Warren (1798-1874), Spooner (1808-1887) e Tucker (1854-1939).

Una prima anticipazione di tale teoria è rinvenibile nel pensiero degli economisti liberali scozzesi del XVIII secolo e, soprattutto, di quei polemisti francesi come Bastiat (1801-1850) e Molinari (1819-1912) che, nella Francia di metà Ottocento, avevano strenuamente difeso la società del laissez faire.

La loro opzione a favore del mercato era tale, e talmente netta, da porre le basi per sviluppi ulteriori: sempre più radicali. Sulla base dei principi morali e delle ragioni del liberalismo classico, infatti, non era difficile arrivare a conseguenze tanto estreme quanto sono quelle a cui sono giunti, in questi anni, autori come Murray N. Rothbard e David Friedman.

Negli scritti di Gustave de Molinari, d’altra parte, vi è un’evidente anticipazione di quella negazione dello Stato moderno che è al centro del nuovo libertarismo statunitense. È sufficiente leggere un breve saggio del 1849, De la production de la sécurité, per constatare che la premessa da cui muove lo studioso è che su un mercato privato e concorrenziale ogni bene (o servizio) è disponibile ad una qualità migliore e ad un prezzo inferiore rispetto a quanto non avvenga in regime di monopolio.

Non si capisce per quale ragione, aggiunge l’economista, quello che è vero per la produzione del grano o delle cure mediche non debba più esserlo quando si ha a che fare con la protezione della persona e dei suoi beni da possibili minacce di individui malintenzionati. In un linguaggio piano e pacato Molinari propone la dissoluzione del politico nell’economico, ovvero l’utopia di una società in cui la coercizione lasci il posto al contratto privato, l’obbligazione politica alla libera associazione.

Mentre i liberali classici avevano sempre considerato la legge e la sicurezza, la giustizia e la difesa, quali ambiti che per loro natura erano sottratti al mercato e alla concorrenza, Molinari valica il Rubicone e annuncia l’utopia di una società integralmente liberale.

Quella dei libertarians, allora, non è soltanto una sintesi tra due tradizioni culturali. Nelle teorie degli anarco-capitalisti vi è soprattutto la maturazione di quanto era già contenuto, fin dalle origini, nei testi classici del liberalismo, se correttamente intesi. La proclamazione di diritti individuali conduce infatti a negare ogni pretesa statale di disporre dei singoli: delle loro risorse, del loro lavoro, del loro tempo.

Come ha scritto David Bergland, per molti libertari il punto di partenza del libertarismo, d’altra parte, sta nell’espressione you own yourself (tu possiedi te stesso). Dove è quanto mai evidente il radicalizzarsi del proprietarismo liberale di Locke, ma al tempo stesso il recupero di un tema anarchico individualista ben presente, in particolare, nel concetto di sovranità dell’individuoelaborato da Warren.

Se si sono nominati Locke e Molinari, Spooner e Thoreau, lo si è fatto soprattutto perché sono stati i libertari stessi a tracciare una prima genealogia del loro movimento intellettuale e della loro dottrina politica. Essi stessi, infatti, hanno avvertito l’esigenza di mettere in evidenza quali sono gli autori del passato da cui maggiormente dipendono e a cui maggiormente hanno attinto.

Sotto certi aspetti si può parlare del libertarismo contemporaneo come della riproposizione, in termini rinnovati, del radicalismo whig. Se per alcuni secoli la tradizione liberale aveva abbandonato il rigore delle origini (subendo svariati influssi democratici, socialisti e conservatori), con Rothbard e David Friedman essa pare infatti aver ripreso la propria vocazionerivoluzionaria.

Nel costruire un proprio passato, il libertarismo si è orientato verso gli spiriti più sovversivi e antistatalisti del XVII e del XVIII secolo: Locke, Sidney (1622-1683), Gordon (ca.1700-1750) e Trenchard (1662-1723), Jefferson (1743-1826), Paine (1737-1809), ecc. Ma soprattutto – fuori dai confini della storia delle dottrine politiche – esso si è preoccupato di rinvenire modelli di società autenticamente liberali, anche a costo di cercare ispirazione in società preistoriche, antichissime, poco conosciute e perfino del tutto screditate.

È come se i libertari fossero ben consapevoli che se il liberalismo come teoria nasce – anche in assenza del nome – soltanto nella seconda metà del XVII secolo, il liberalismo come pratica è qualcosa di molto più antico. Almeno in taluni suoi aspetti essenziali.

Secondo Rothbard e molti altri autori che a lui in qualche modo si rifanno, è necessario rovesciare la tesi marxiana – tuttora prevalente – secondo la quale prima dell’emergere della modernità liberale non c’erano che le tenebre di una società feudale dominata dall’oppressione dell’uomo sull’uomo. Le cose non stanno così.

La teoria liberale emerge proprio a difesa della società civile, minacciata e oppressa dal trionfo dello Stato moderno, nel momento in cui quella che Jean Baechler ha definito l’anarchia medievale lascia il posto ad un nuovo ordine: burocratizzato e centralizzato. Se prima della modernità non c’era una teoria liberale, è perché non c’era lo Stato quale lo conosciamo noi e non vi era l’esigenza di reagire di fronte al suo monopolio.

A tale riguardo merita che si metta in evidenza il fatto che un esponente europeo del libertarismo contemporaneo, il giurista fiammingo Boudewijn Bouckaert, ha sostenuto che le libertà comunali ed il mercato sorgono intorno all’undicesimo secolo dopo Cristo e per tutta una serie di fattori – economici, istituzionali, culturali – tra i quali vi sono pure, in una posizione preminente, la riforma cluniacense e la sottomissione dell’Imperatore e dei Re ad un più alto sistema di valori e di norme morali.

È in pieno Medioevo, insomma, che si afferma un ordine sociale quanto mai libero, rispettoso dei diritti individuali e basato su relazioni essenzialmente private e contrattuali. Gli antichi Comuni delle Fiandre e dell’Italia settentrionale divengono quindi modelli a cui guardare e verso cui, a detta di Bouckaert, in qualche modo incosapevolmente si dirigono coloro che – specie in America – iniziano a vivere entro città private, ovvero sia in quartieri condominiali all’interno dei quali i servizi pubblici essenziali sono sottratti alla gestione inefficace dell’amministrazione pubblica.

Il Medioevo delle strade e dei ponti privati (con tanto di pedaggio e di ponteggio) non è però l’unico riferimento storico a cui guarda un autore libertarian come David Friedman, figlio di Milton. Un’altra società integralmente liberale fu quella del Far West americano, all’interno della quale la legge e la sicurezza erano assicurate (in modo efficace, civile e ben poco costoso, come attestano molte ricerche storiche) da soggetti privati.

Ma ugualmente da apprezzare sono l’ordine civile delle tribù dei pellerosse, quello dell’Islanda medievale e quello vigente nelle relazioni internazionali: tutti analogamente caratterizzati dall’assenza di un potere centrale in condizione di sopprimere ogni opportunità di scelta e di cancellare competizione e pluralismo.

Questioni di giustizia

Secondo i libertarians, per organizzare una società il capitalismo liberale basta a se stesso. Non c’è alcuna ragione di abbandonare la civiltà dei rapporti volontari (comunitari, di mercato o di altro genere) per introdurre relazioni aggressive: fondate sulla coercizione.

È esattamente in questo senso che va intesa la tesi di Rothbard secondo cui l’imposizione fiscale è un furto, una vera aggressione ai beni e ai diritti dei singoli, mentre la pianificazione economico-sociale rappresenta la distruzione di ogni possibilità di disporre di informazioni, conoscenze, esperienze e occasioni di crescita.

A questo riguardo è del tutto evidente che un ruolo fondamentale è stato ricoperto dagli economisti della Scuola Austriaca (Menger, Mises, Hayek, Kirzner), i quali hanno favorito una nuova ed inedita comprensione del mercato: non più immaginato quale sistema in equilibrio ma quale processo in costante evoluzione, non più raffigurato quale meccanismo impersonale bensì quale luogo di incontri e transazioni.

In questo senso va sottolineato come questa cultura liberale rigetta l’animismo che caratterizza buona parte della cultura politica contemporanea, abituata ad attribuire identità e unità d’azione a realtà sociali complesse, che esistono solo quale incontro di molteplici e discordanti decisioni.

Se Adorno e Horkeimer hanno perfino preteso di definire quali sarebbero gli effetti del capitalismo sulla personalità individuale, per il liberalismo austriaco il termine mercato è solo un’espressione che si utilizza per indicare quell’insieme di accordi volontariamente sottoscritti che taluni proprietari liberi di scegliere decidono di sottoscrivere.

Il mercato, quindi, non fa nulla e non condiziona nessuno. In questo senso va detto che non esistono nemmeno decisioni delmercato, ma solo decisioni liberamente assunte all’interno del mercato.

Anche il prezzo, quale emerge nello scambio, non ha mai quel carattere assoluto, generale e universale che una certa economia neo-classica tende ad attribuirgli. Esso vive solo nelle transazioni: tanto è vero che quando il dollaro è quotato 1800 lire nelle borse dei cambi, ma le banche sono chiuse e abbiamo bisogno di convertire i nostri soldi, se c’è una persona disposta a cedere dollari in cambio di 2000 lire e noi siamo disposti anche a spendere tanto per disporre della valuta americana, il valore del dollaro – in quel preciso momento e in quella determinata circostanza – è 2000 lire.

Ma su questa impalcatura concettuale fortemente individualista, che pone al centro di tutto gli uomini e le loro interazioni, Rothbard ha innestato un richiamo ai diritti naturali che ha conferito una solidità ancora maggiore alle sue tesi liberali.

Decisiva, in tal senso, è stata l’influenza di Ayn Rand, dato nei testi filosofici dell’autrice di The Virtue of Selfishness è presentata (per la prima volta in questa forma così radicale) l’idea che non è mai legittimo aggredire il prossimo. Per la Rand, infatti, «un diritto è la sanzione morale di un principio positivo, e cioè della libertà d’agire secondo il proprio giudizio, in funzione dei propri obiettivi, in virtù delle proprie scelte volontarie, non forzate. Ai propri simili i diritti di un uomo non impongono obbligazioni che di genere negativo: quello d’astenersi dal violare dei propri diritti».

Ma nel porre le premesse per l’elaborazione teorica dei libertarians e nello sviluppare temi fondamentali per questa scuola di pensiero non meno essenziale è stato il ruolo di quegli autori come Mises e Hayek che hanno forgiato alcuni strumenti concettuali indispensabili a chiunque voglia lavorare ad un’ipotesi di società integralmente liberale. Il tema dell’ordine spontaneo, in particolare, ha giocato e gioca un ruolo di rilievo nelle descrizioni di una società in cui la cooperazione emerge non già a seguito di un decreto o di un comando, ma in virtù dell’incontrarsi di libere, singole e private volontà.

Come ha messo in evidenza un filosofo inglese, John Gray, vi è una conoscenza pratica la quale «è svuotata del suo significato e sprecata in istituzioni che devolvono le decisioni dagli individui, portatori di conoscenza implicita, a procedure collettive di decisione».  Ma queste aberrazioni che sono tipiche della pianificazione sono tanto più evidenti quando tali procedure di decisione vengono affidate alla gestione di esperti o funzionari del tutto estranei a quel contesto culturale e del tutto prive di quelle informazioni specifiche.

Solo una gestione non centralizzata, nelle mani dei singoli individui, può permettere una gestione adeguata di conoscenze che non si possono aggregare e trasferire, e spesso neppure tematizzare.
Questo tema della superiore razionalità dei sistemi fondati sull’autoregolazione e sulla cooperazione, evidentemente, valica gli stessi confini dell’economia.

Non soltanto il mercato, infatti, appartiene a questa classe di fenomeni istituzionali policentrici, come ha mostrato molto bene Robert Axelrod in un suo importante studio sull’emergere dell’ordine anche in assenza di una costrizione autoritaria.

L’autore che più di tutti, però, ha fatto conoscere talune tesi del liberalismo integrale è Robert Nozick, che – per molti aspetti – nel libertarismo non si è mai pienamente riconosciuto e che, soprattutto, è stato sempre giudicato in maniera piuttosto negativa dagli esponenti principali di questa scuola di pensiero.

Ma tutto questo non elimina che il successo del saggio del 1974, che ha fatto di Nozick uno dei filosofi della politica più noti e più studiati in ogni parte del mondo, abbia notevolmente contribuito alla circolazione di talune tesi del liberalismo più radicale.

Contrapponendosi a Rawls e alla sua teoria della giustizia, apertamente avversa al libero mercato capitalistico, con Anarchy, State and Utopia Nozick ha fatto sì che gli ambienti della filosofia accademica entrassero in contatto con talune originali intuizioni del libertarismo. Anche se, all’uscita di quel volume,fuori dagli ambienti libertari più militanti furono ben pochi a rendersi conto di quanto la sua critica alle concezioni socialdemocratiche fosse costruita sulla base di tesi, argomenti e analisi che provenivano da Rothbard, da Ayn Rand, da Lysander Spooner, ecc.

Quello che i libertarians più avvertiti scoprirono immediatamente, invece, è che in Nozick vi era lo sforzo di conseguire un obiettivo che nessun autentico libertarian si sarebbe mai proposto: la legittimazione morale della coercizione statale.

È per questa ragione che il filosofo di Harvard riceve critiche molto dure da parte di Rothbard, il quale ironizza su Anarchy, State and Utopia e ne parla come del tentativo (a suo dire fallito) di descrivere l’immacolata concezione dello Stato: il suo costituirsi, a partire dalla condizione di natura, tramite passaggi legittimi e che non violino i diritti dei singoli.

Per molti libertarians, inoltre, utopico ed irrealistico non è il libero mercato, ma proprio quello Stato minimo proposto da Nozick. È facile comprendere – in questo senso – che uno Stato quale è quello immaginato dai liberali, uno Stato che si limiti a tutelare i diritti individuali, non potrà mai esistere.

Nel momento in cui una classe politica riesce ad ottenere il controllo monopolistico e violento di un territorio, per quale strano motivo dovrebbe contenere le proprie aspirazioni? Il fallimento storico del costituzionalismo liberale, testimoniato dall’incessante dilatazione dei poteri pubblici che ha avuto luogo negli ultimi secoli, è lì a dimostrare quanto sia ingenuo nutrire illusioni sull’autocensura delle élite dirigenti.

Usando una formula divertente, Anthony de Jasay ha affermato che la costituzione è una sorta di cintura di castità che le società impongono ai politici, ma questi ultimi ne possiedono la chiave e prima o poi la useranno.

Anche la costituzione più liberale, insomma, è destinata a soccombere di fronte alle pretese e alle ambizioni dei politici. Questo spiega perché Rothbard, e con lui la maggior parte dei libertarians, non abbia accolto favorevolmente la proposta di uno Stato minimo abbia continuato a proprorre una società di mercato che veda competere differenti agenzie di protezione.

Concorrenza tra governi?

Le conclusioni della diatriba tra gli anarchici liberali e i miniarchici ci obbligano a mettere in chiaro che per la cultura giuridicalibertarian le uniche istituzioni pubbliche legittime sono quelle che nascono, si sviluppano o vengono adottate a seguito della libera opzione di chi vi aderisce.

Come già mise in evidenza Gustave de Molinari, un regno o una repubblica possono essere accettati se vivono in virtù del consenso dei loro singoli sudditi, i quali devono essere liberi di scegliere all’interno di una varietà di opzioni in concorrenza tra loro.

Ma è proprio questo che spiega l’attenzione dei libertarians per quelle nuove forme di convivenza (privatopie) che iniziano ad affermarsi negli Stati Uniti all’interno di città integralmente private. Nel loro federalismo coerente e spregiudicato, i libertari americani ritengono che le istituzioni debbano nascere dal basso e che – per lo stesso motivo – sia più che lecito mettere in discussione l’unità degli Stati entro i quali ci troviamo.

Secondo Rothbard, poiché nessuno trova strano che il Canada sia del tutto distinto dagli Stati Uniti, è pure legittimo ritenere che ogni Stato americano possa uscire dalla federazione ed ogni contea dallo Stato, che ogni città possa secedere dalla contea, che ogni quartiere possa abbandonare la propria città e – alla fine – che ogni individuo possa rendersi indipendente dalla propria città.

A giudizio di Rothbard, con la piena riconquista delle libertà individuali sulle rovine dei vecchi Stati autoritari potrebbero quindi emergere nuove nazioni, la cui esistenza dipenderà unicamente dal consenso che riusciranno ad ottenere e dalla legittimazione autentica che sarà loro conferita da tutti quanti decideranno di aderire ai nuovi ordinamenti e di prestare loro rispetto.

In questo senso, il condominio rappresenta una specie di modello per le istituzioni pubbliche libertarie, all’interno della quale non può assolutamente trovare spazio un’obbligazione politica che si ponga al di sopra della volontà degli individui, in nome della pretesa sacralità di teologie politiche nazionaliste o di altro genere.

Il localismo e la richiesta di stati di piccole dimensioni rispondono, analogamente, a questa esigenza di mettere tra parentesi buona parte della storia occidentale moderna per riallacciarsi ad istituti antichi eppure in larga misura ancora attuali. Se ci si è soffermati su tali questioni è per rimarcare che le esigenze del liberalismo integrale si collegano strettamente, come emerge anche da questi accenni storici, a quelle del federalismo autentico.

Le ricerche giuridiche e filosofiche del liberalismo integrale contemporaneo, nel momento in cui si rifanno anche alle società medievali e a taluni loro prolungamenti (fino al XVIII secolo), sottolineano la stretta correlazione che unisce il libero mercato e la concorrenza istituzionale propria dei sistemi politici che hanno preceduto lo Stato moderno.

In questo senso, quando si pensa alla società di mercato dei libertarians non si deve immaginare necessariamente un universo dominato dalla sola proprietà individuale, ma piuttosto da istituzioni che non ledono i diritti naturali della persona, che nascono per consenso e che rispettano le legittime proprietà. Né si deve pensare a qualcosa di assolutamente inedito e mai visto, dato che la storia ci offre un gran numero di suggerimenti e di soluzioni a cui è possibile ispirarsi.

Basta pensare all’universo sociale del Far West, una realtà che i libertari hanno variamente rivalutato e che non fu affatto quell’inferno del diritto e quel luogo di ingiustizie che molti film e romanzi ci hanno abituato ad immaginare.

Come ha mostrato in un suo recente saggio un giovane e brillante giurista libertario, Guglielmo Piombini, il numero degli omicidi e delle rapine era molto minore nelle zone libere del Far West (non ancora sottomesso alla giurisdizione americana) che non nei territori inclusi all’interno della federazione. A dimostrazione che anche nel settore della sicurezza e della giustizia non bisogna fare troppo affidamento sui presunti benefici delle organizzazioni monopolistiche…

L’ingresso del Far West all’interno delle istituzioni statali americane, allora, non ha rappresentato in alcun modo un miglioramento della libertà e delle condizioni di vita per quelle popolazioni che in precedenza erano libere e provvedevano alla propria difesa grazie a sistemi di autorganizzazione emersi dal mercato.

Non deve stupire, allora, se per i libertarians una delle strategie fondamentali per liberare la società civile dal monopolio legale dello Stato consiste, come ha scritto Hans-Hermann Hoppe, nel favorire i processi di decomposizione degli Stati. Hoppe ha scritto, infatti, che «deve essere chiaro che non è lo Stato (monarchico o democratico) ma la proprietà privata, il riconoscimento e la difesa dei diritti di proprietà, la fonte ultima della civiltà umana» e che, per poter avere società più liberali, è assolutamente necessario – anche in una prospettiva strategica – dare «una preferenza ideologica a tutte le forze sociali decentralizzanti o anche secessioniste. Infatti uno Stato territorialmente più piccolo è spinto alla moderazione» di tutti quegli appetiti che sono caratteristici delle classi politiche, in tutti i Paesi e in tutte le civiltà.

Lo stesso Rothbard, in uno dei suoi ultimi scritti (Nations by consent, del 1994), ha sotolineato l’esigenza «di decomporre gli Stati nazionali di carattere coercitivo che esistono oggi così da dar vita a nazioni autentiche, o nazioni per consenso».

Per i libertarians, infatti, non c’è nulla di più pericoloso che la concentrazione del potere pubblico in un unico centro decisionale. E tutto quanto contribuisce ad indebolire questo monopolio legale e ad aprire spazi di libertà e concorrenza va salutato con grande favore.

Conclusione

A chiusura di questa presentazione della teoria libertarian contemporanea è citare alcune classiche definizioni dello Stato e della libertà, cominciando dalla nota frase di Tom Paine, che in parte (ma solo in parte) anticipa la cultura e la sensibilità libertarie: «Il governo anche nel suo stato migliore non è che un male necessario, nel suo stato peggiore è un male intollerabile». Anche nella migliore delle ipotesi, allora, il governo sarebbe un male (sebbene necessario).

Un’intonazione simile si può ritrovare in Jefferson, il quale era convinto che il miglior governo è quello che governa meno. Questa definizione ebbe un notevole successo in America e divenne molto celebre: l’anarchico individualista Henry David Thoreau l’accettò volentieri, aggiungendo – da parte sua – di essere convinto che il miglior governo è però quello che non governa affatto.

Forse i libertari credono che una società priva di un monopolio della violenza rappresenti un ordine perfetto? No di certo. Una società libera è una società che riproduce tutti i difetti degli individui che ad essa prendono parte, in cui vi sono persone indifferenti, egoiste, stupide, che lavorano male, che offrono servizi di qualità scadente e che sono incapaci di interagire positivamente con il prossimo.

Una società libera è anche tutto questo. Ognuno di noi, nella propria vita, fa esperienza di ciò e si rende conto di come – indipendentemente dalle istituzioni – sia raro incontrare uomini santi, saggi, tolleranti, generosi o davvero intelligenti.

Proprio questa realtà sociale deve indurci però a pensare che ognuno di noi deve poter fare errori, ma in proprio: senza pretendere di imporre a tutti le conseguenze dei propri sbagli. Sotto vari punti di vista, infatti, lo Stato moderno non è stato altro che la pianificazione e la generalizzazione dell’idiozia e della grettezza di alcuni uomini (i governanti), che hanno imposto le loro meschinità e la loro miopia a grandi masse di persone inermi ed incolpevoli.

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