In Anti & Politica, Libertarismo

DI PIERRE DESRICHERS E HIROKO SHIMIZU*

Qualche anno fa abbiamo partecipato ad una conferenza in cui un distinto oratore accademico non solo decantava le lodi del “locavorismo” (la teoria per cui aumentare, localmente, la parte di produzione alimentare destinata al consumo aiuterebbe a risanare il pianeta, creare lavoro, aumentare la  sicurezza alimentare e la salute fisica, mentale e spirituale della società), ma insultava i Giapponesi, additandoli come i maggiori “parassiti” della Terra, poiché grandi importatori annuali di cibo (quasi il 60% dell’apporto calorico totale) [1].

Avevamo vagamente sentito parlare della mania del cibo locale tempo addietro, ma in quel momento la questione divenne personale, giacché uno di noi era nato e cresciuto nella più grande regione di Tokyo. Vero, i suoi compatrioti e avi costruirono la loro casa su poche e affollate isole, il cui potenziale agricolo era soggetto a disastri naturali. Conseguentemente, non avevano scelta se non quella di contare sugli stranieri per ottenere una dieta decente. Infatti, se fossero tornati all’autosufficienza insulare dei loro avi, i Giapponesi odierni avrebbero dovuto cavarsela con piccole quantità di riso, patate, patate dolci, grano e verdure [2]. Come i disperati contadini che, durante la seconda Guerra Mondiale, iniziarono a uccidere delfini, come denunciato nel documentario The Cove, essi avrebbero dovuto sfruttare sempre più intensamente le loro scorte costiere di pesci selvatici, frutti di mare e mammiferi marini [3]. Fortunatamente per loro e l’ecosistema circostante, comunque, nell’ultimo secolo e mezzo ai Giapponesi fu concessa l’opportunità di specializzarsi in altri tipi di attività economiche e di commerciare i loro prodotti con del cibo cresciuto altrove e in migliori condizioni; come risultato, gli standard di vita crebbero in tutto il mondo e gli abitanti dell’arcipelago nipponico godettero di una molto più abbondante, diversificata e  conveniente dieta rispetto ai loro affamati avi.

Al tempo in cui abbiamo pubblicato una risposta al movimento km zero, questa, per quello che sappiamo, rimane la più ampia fino ad oggi [4] (abbiamo ampliato grandemente la nostra confutazione del locavorismo in un libro di prossima uscita) [5]. La strada per l’inferno della sicurezza alimentare, economica, ambientale e agricola è lastricata di piatti locali freschi e nutrienti. Per la nostra gioia, il pezzo ha ricevuto un’importante copertura nei media Canadesi. Non sorprendentemente però, vari (e spesso personali) insulti hanno iniziato a riempire velocemente le nostre email. Basandoci sul volume di corrispondenza offensiva ricevuta, a volte crediamo che mettere in dubbio l’esistenza di Dio in una riunione religiosa riceverebbe un trattamento più pacato e sobrio! Il defunto romanziere Michael Crichton descrisse l’ambientalismo come la “religione degli atei urbani” [6], ma il locavorismo è ora una delle sue denominazioni più diffuse.

Senza sorpresa alcuna, la maggior parte delle caratteristiche comuni degli attivisti di questi movimento erano il loro disprezzo istintivo delle grandi industrie e della ricerca del profitto, assieme ad un forte attaccamento emotivo per i loro vicini, i quali sono considerati minacciati dai prodotti stranieri e dai conglomerati agro alimentari internazionali. Un po’ perplessi da queste reazioni viscerali, abbiamo provato a dare un senso alla rabbia e all’odio verso il commercio e la catena globale di offerta alimentare dei locavoristi. Di seguito un paio di cose da ricordare che abbiamo imparato lungo la via.

Voglia di comunità ed eguaglianza – e  perché non dovremmo seguirle [7]

Circa il 90% degli esseri umani che hanno messo piede sul pianeta appartenevano a gruppi di procacciamento alimentare non territoriali, ma frequentemente in conflitto l’uno con l’altro. Questa propensione allo scontro rimase, a quanto pare, prevalente anche nelle prime comunità agricole. In un mondo che rispecchia da vicino quello di Meerkat Manor [8], il guadagno di una tribù o gruppo arrivava a spese di un altro, ciò che gli scienziati sociali odierni chiamano “gioco a somma zero”. Una presunta eredità culturale di questo stile di vita è l’innato favore umano moderno per gli appartenenti alla propria comunità piuttosto che gli stranieri; un’altra è costituita dal fatto che la maggior parte di noi ancora intende, spontaneamente, la creazione e la distribuzione di ricchezza in termini di un gioco a somma zero nel quale i ricchi diventano sempre più ricchi a spese dei poveri. Una breve versione dell’argomento può essere riassunta come segue. In un gruppo di caccia e raccolta, le interazioni sono di tre tipi: condivisione comunitaria, nella quale ogni membro ha diritto a una quota di ciò che è disponibile; scala gerarchica, in cui le persone poste ai gradi gerarchicamente più bassi devono fare riferimento ai superiori; e relazioni egualitarie, attraverso cui le persone operano secondo un intuitivo senso di giustizia ed equilibrio (un esempio attuale sarebbe la precedenza in un incrocio a quattro vie). Inutile dire che la maggior parte degli esseri umani ha sempre avuto in antipatia le scale gerarchiche poiché vi sono sempre pochi individui al vertice di qualsiasi gerarchia. La naturale inclinazione della maggioranza sarebbe, quindi, sempre quella di favorire una forma di (più o meno) “giusta” redistribuzione di risorse scarse, una propensione che è stata lungamente al centro di innumerevoli politiche, filosofie, religioni e progetti di vita associata.

Un problema sorge, tuttavia, quando una tale prospettiva conduce le persone a credere che una più recente forma di interazione sociale, la transazione volontaria di mercato, sia un gioco a somma zero nel quale alcune persone accumulano “potere economico” e profitti rifiutandosi di pagare il “giusto prezzo” per il lavoro altrui. Qualsiasi beneficio l’economia possa creare, sostengono i critici, questo è sempre concentrato nelle mani indifferenti di pochi individui, alle spese di tutti gli altri, delle minoranze, della comunità e dell’ambiente [9]. Visto in questa luce, effettivamente ci si sente costretti a rimpiazzare il mercato con alternative sociali nelle quali le risorse disponibili siano redistribuite “da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”.

Certo, parecchie corporations e uomini d’affari sono particolarmente abili nell’usare l’arena politica per assicurarsi sussidi o protezioni da competitors più efficienti, ma una prospettiva a somma zero sulla vita commerciale disconosce profondamente tre benefici unici dello scambio volontario.
Primo; due parti commerciano ciascuna con l’altra poiché, secondo i loro costi e benefici soggettivi, entrambi guadagnano dallo scambio. Se non fosse così, non vi sarebbero transazioni volontarie. Per esempio, il fatto che due individui abbiano scambiato una determinata quantità di bacche essiccate e un pezzo di carne affumicata ci dice che ognuno valutava gli oggetti ricevuti nello scambio più degli oggetti donati. Gli scambi volontari sono quindi sempre “win – win” o benefici per entrambe le parti, nonostante il tutto possa apparire ingiusto agli occhi altrui.

Secondo, al contrario della condivisione comunitaria che sembra richiamare più alte motivazioni, le transazioni di mercato sono direttamente basate sul proprio interesse. Come l’economista del diciottesimo secolo Adam Smith notò: “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che noi aspettiamo la nostra cena, ma dal loro rispetto nei confronti del loro stesso interesse. Noi ci rivolgiamo non alla loro umanità ma al loro amor proprio, e mai parliamo loro dei nostri bisogni ma dei loro vantaggi”. Gli scambi volontari indicano ciò che è ritenuto prezioso dagli altri. In altre parole, il commercio motivato dal proprio interesse inevitabilmente implica reciproco beneficio egoistico.

Ultimo, i comportamenti commerciali si reggono, alla fine, sulla ragionevole aspettativa di godere dei frutti del proprio lavoro. Qui vorremmo suggerire che le lezioni impartite dalla storia sono chiare: non c’è alternativa ai diritti di proprietà e alla libertà commerciale, se vogliamo promuovere una società orientata al futuro e azioni (come l’imprenditorialità, i risparmi e gli investimenti di lungo termine) per le quali gli individui si accollano rischi, guadagnano profitti e talvolta soffrono conseguenze negative. Premiando gli individui che fanno uso di risorse scarse in modo efficiente e punendo quelli che non lo fanno, le economie di mercato promuovono innovazione e sviluppo economico.

Altra inevitabile caratteristica delle economie di mercato è che, a causa di talenti differenti, ambizioni maggiori, etica del lavoro più forte, carriere più lucrative o semplicemente fortuna, alcuni individui accumuleranno sempre maggiore ricchezza rispetto agli altri, un risultato ostico per le persone che hanno riposto maggiore impegno nell’uguaglianza piuttosto che nella creazione di ricchezza e che non sono mosse dal vecchio detto “l’alta marea solleva tutte le barche”. Come Winston Churchill osservò, il “vizio intrinseco del capitalismo è la divisione ineguale delle benedizioni; la virtù intrinseca del socialismo è l’eguale condivisione della miseria” [10].Personalmente, il fatto che i più ricchi possano diventare più ricchi ancora non ci preoccupa, dato che anche il povero diventa più ricco in termini assoluti e la torta economica cresce. E l’evidenza ci dice questo. In definitiva, viviamo in un mondo di creazione di ricchezza, non di transazioni a somma zero, qualcosa che noi speriamo venga anche compreso dagli attivisti del km zero.

Commercio e umanità

Alcune prove suggeriscono che molti primati scambiano servizi (ad esempio prestazioni materiali in cambio della protezione di individui più forti), ma gli umani sono l’unica specie che scambia beni durevoli. Molta discussione ancora circonda le origini di ciò che Adam Smith descriveva come la propensione a “trafficare, barattare e scambiare una cosa per un’altra” [11], ma col tempo divenne non solo qualcosa che ognuno di noi può acquisire ad un’età relativamente precoce senza sforzi consapevoli, ma anche un modo di definirci. Lo scrittore del diciannovesimo secolo Jules Renard disse a proposito: “Finalmente so cosa distingue l’uomo dalle altre bestie: le preoccupazioni finanziarie”[12]. Non può quindi esserci “legge della giungla” nel regno commerciale, non essendo il commercio presente altrove in natura.

Qualunque interazione singola o reciproca o combinazione di fattori abbia portato all’emersione del mercato, esso è tra noi da almeno 150.000 anni e, fin dagli inizi, si sviluppò fra e oltre “comunità locali”, residenti in territori adiacenti, con notevoli contrasti di flora, fauna e risorse minerali. Per esempio gli individui che sbarcavano il lunario lungo le coste, raccogliendo frutti di mare e altre risorse marine, avevano sempre un forte incentivo, anche se essi non praticavano commercio nei loro gruppi, a variare la loro dieta e a completare la loro dotazione di risorse, scambiando alcuni dei frutti del loro lavoro per altri prodotti da persone che cacciavano e raccoglievano cose diverse nell’entroterra.

Una volta emerso il commercio, gli umani avevano a disposizione due opzioni per interagire l’uno con l’altro. La prima era continuare a combattere, dentro o fuori il gruppo di appartenenza, al fine di proteggere o espandere il proprio status e i propri possedimenti. Vero e proprio furto di beni materiali, schiavitù, tributi o “protezione” per un prezzo, attività politiche e guerre ultranazionali si sarebbero quindi aggiunte ai modi di vivere che sono caratterizzati dal coinvolgimento esclusivo, nella categoria dei vincitori, di persone che banchettano sulla vittoria e altri presenti sul menu. Al contrario, il commercio rese possibile per alcuni individui la specializzazione nella produzione e nello scambio reciprocamente vantaggioso di nuova ricchezza materiale, un processo che, attraverso azioni ripetute, favoriva lo sviluppo di fiducia reciproca, cioè una valutazione fatta da entrambe le parti in base alla quale viene ritenuto non incauto rendersi vulnerabili alle altre parti per la prospettiva di potenziali guadagni. Nelle parole del filosofo del diciottesimo secolo Montesquieu: “Il commercio è una cura per i più distruttivi pregiudizi; è quasi una regola generale che, ovunque troviamo maniere garbate, lì il commercio fiorisce; e ovunque vi è commercio, là incontriamo maniere garbate… La pace è l’effetto naturale del commercio” [13]. Nelle immortali parole di un altro pensatore francese dell’epoca, Voltaire: “Andate alla Borsa di Londra, luogo venerabile più di molti tribunali, e vedrete rappresentanti di tutte le nazioni riuniti per il profitto della specie. Là l’Ebreo, il Maomettano e il Cristiano trattano l’uno con l’altro come se appartenessero alla stessa religione, riservando l’epiteto di <infedele> a chi finisce in bancarotta” [14]

La nostra capacità di negoziare pacificamente prodotti cresciuti o creati in terre lontane con perfetti sconosciuti è probabilmente la nostra più grande conquista culturale. Conseguentemente, noi viviamo incomparabilmente più a lungo e meglio rispetto ai nostri avi e, secondo lo psicologo Steven Pinker, viviamo nell’era più pacifica di tutta la storia umana [15]. Noi ci auguriamo, sinceramente, che i locavoristi imparino a essere grati per questo e per tutti i miracoli quotidiani frutto della catena globale dell’offerta alimentare.

Articolo di Pierre Desrochers e Hiroko Shimizu per Mises Canada

 

*Link all’originale: http://vonmises.it/2012/04/15/tribalismo-e-localismo-alimentare/

Traduzione di Luigi Pirri

 

Note

[1] Central Intelligence  Agency, Thee World Fact Book https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/index.html.

[2] Per i lettori che hanno familiarità col Giapponese, si veda The Japanese Ministry of Agriculture, Forestry and Fisheries discussion of what present day sel – sufficiency would entail athttp://www.maff.go.jp/j/zyukyu/index.html.

[3] Il documentario è reperibile qui: http://www.thecovemovie.com/.

[4] Pierre Desrochers and Hiroko Shimizu. 2008. Yes, We have no Bananas. A Critique of the ‘Food Mile’ Perspective. Mercatus Policy Series Primer no. 8, Mercatus Center (George Mason University) http://mercatus.org/publication/yes-we-have-no-bananas-critique-food-miles-perspective?id=24612.

[5] Pierre Desrochers and Hiroko Shimizu, Prossimamente. The Locavore’s Dilemma. In Praise of the 10-000 Mile Diet. Public Affairs http://www.publicaffairsbooks.com/publicaffairsbooks-cgi-bin/display?book=9781586489403

[6]  Michael Crichton, 2003, “Remarks to the Commonwealth Club (San Francisco)” September 15http://www.forces.org/articles/files/crichton.htm.

[7] A meno che non sia specificato diversamente, le conoscenze e speculazioni “cognitive” e di alternanza “commercio/violenza” sono state prese o ispirate da,  tra gli altri, Steven Pinker. 2002. The Blank Slate: The Modern Denial of Human Nature. New York: Viking; Arnold Kling. 2003. “Economic Idiotarianism.” TCS Daily, January 30

[8] The official (UK) website of this TV series is at http://www.meerkatmanor.co.uk/index.htm.

[9] Come Marx ed Engels osservanvano nel loro Manifesto, il capitalismo ha “ammassato la popolazione, centralizzato i mezzi di produzione e… concentrato la proprietà nelle mani di pochi”.

[10] Winston Churchill. 1949. The Sinews of Peace. Post-War Speeches. Houghton Mifflin, p. 23.

[11] Adam Smith. 1776. An Inquiry Into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, Vol. 1, Book I, chapter II: Of the Principle which gives occasion to the Division of Labour. Available at http://www.econlib.org/library/Smith/smWN1.html#B.I, Ch.2, Of the Principle which gives Occasion to the Division of Labour

[12] Quotes by Jules Renard http://books.google.ca/books?id=ljz4rwu6HBsC&source=gbs_navlinks_s

[13]  Montesquieu. Complete Works, Volume 2, The Spirit of Laws [1748], London: T. Evans, 1777, pp. 1 – 2 http://oll.libertyfund.org/index.php?option=com_staticxt&staticfile=show.php%3Ftitle=838&Itemid=28 Per una discussione dettagliata delle ultime evidenze sull’argomento, cfr. Matt Ridley. 2010. The Rational Optimist. How Prosperity Evolves. HarperCollins Publishers, chapter 3.

[14] Voltaire1733. Philosophical Letters Available at http://oll.libertyfund.org/index.php?option=com_staticxt&staticfile=show.php%3Ftitle=666&Itemid=27

[15] Steve Pinker, 2011, The Better Angels of Our Nature; Why Violence has Declined? Viking.

 

Pierre Desrochers è Professore Associato di Geografia all’università di Toronto Missisauga. La sua area di ricerca e i suoi insegnamenti si incentrano principalmente sullo sviluppo economico, l’innovazione tecnologica, l’imprenditorialità, il commercio internazionale, l’ambiente di mercato e le relazioni tra università e mercato. È anche esperto di proprietà intellettuale e politiche abitative.

Hiroko Shimizu, visiting research fellow al PERC, è autrice di articoli sulla sicurezza alimentare pubblicati sul National Post e Reader’s Digest. È coautrice, con Pierre Desrochers, di “Sì, non abbiamo Banane: una critica della prospettiva “km zero”.

 

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Showing 7 comments
  • CARLO BUTTI

    Certo, ciascuno è libero di vendere e comperare prodotti come e con chi vuole, e della qualità che vuole offrire e gli viene offerta, o crede gli venga offerta. In un sistema libertario uno ha anche il diritto di tirarsi la zappa sui piedi(non però di tirarla sui piedi dergli altri). Io ho assaggiato qualche mese fa un quadretto di cioccolato equo-solidale che sapeva di terra: la nonna del mio genero l’aveva comperato per un’opera di beneficenza, il nipote l’aveva schifato, mia figlia anche, ed è toccato a me, da sempre estimatore del cioccolato fondente, di trangugiarlo con qualche riluttanza. Mi chiedo: il modo migliore per aiutare i poveri è quello di comperare a prezzo maggiorato i loro cattivi prodotti, o quello di insegnar loro a produrre meglio? Penso il secondo, altrimenti li inchiodiamo alla loro povertà. Quanto ai prodotti a km zero, siamo sicuri che siano del tutto garantiti? La sorella del mio suocero buonanima vendeva le uova delle sue galline, naturalmente a prezzo più alto delle latterie e dei supermercati “perché di produzione propria”: Quando la domanda(dei gonzi creduloni) superava la produzione, la buona donna andava al supermercato, si riforniva delle uova mancanti e le rivendeva come proprie a prezzo maggiorato. Al supermercato non ho mai subìto truffe: tutte le volte che ho sporto reclamo per un prodotto difettoso non hanno mai fatto una piega, si sono sempre assunti le loro responsabilità. Le forme di produzione e di vendita pre-moderne sono anti-capitalistiche e quindi meno affidabili, perché meno razionali. La morale non c’entra nulla, c’entrano l’efficienza e la la convenienza.

  • Sigfrido

    Epoca più pacifica della Storia ???? Solo perchè ci sono ordigni nucleari in grado di azzerare la vita di tutti : nessuno si azzarda a cominciare. Ma definire questa l’epoca più pacifica della storia…

    La catena globale alimentare va bene se non si esagera. Più forza ai km zero non significa, secondo me, azzerare il resto. Il cittadino deve poter scegliere tra un prodotto che ha fatto 12.000 kilometri ed uno che ne ha fatti 20…DEVE POTER SCEGLIERE. E sul piano biochimico-nutrizionale non c’è storia…..

    • Giorgio Fidenato

      Eh si, proprio per questo che una gran parte dei nostri eccellenti prodotti alimentari prende la via dell’estero invece che essere prodotti in loco. Ed è proprio per questa grande teoria del Km zero che in Svizzera, noto paese in cui si produce il cacao, è diventato il paese della cioccolata, o l’Italia, noto paese in cui si produce caffè, è uno dei migliori al mondo in fatto di tostatura del caffè. Per voi la cultura, la capacità di abbinare i gusti, che è un tipico fenomeno culturale è uguale in ogni parte del mondo!!!!! Ed è grazie alla vostra teoria che nei secoli passati si andava a prendere le spezie nell’oriente per poter conservare bene il cibo (visto che a quel tempo non esistevano i congelatori). La vostra è solo una teoria e per di più strampalata ed illiberale!!!!!!

      • Bisata'

        @ Giorgio : non sai quanto ammiri le persone come te capaci di uscire dagli schemi , di mettersi in gioco in prima persona , di andare contro a verita’ predefinite ma mi stupisco quando non scorgi l’altra faccia della medaglia.Il denaro e’ energia , seguendo la logica della ricerca di mercati- profitti sempre migliori abbiamo delocalizato le nostre aziende creando miriadi di cappanoni vuoti e cassaintegrati, i quali non hanno piu’ i soldi per la pizza in piu’,per tinteggiare casa , per cambiare macchina ,ecc. ENERGIA sottratta al territorio che ne blocca la crescita .Il km 0 e’ un marchio registrato dalla Coldiretti , ma e’ anche una fisolofia di vita che sta riscontrando sempre crescente interesse anche se sarebbe piu giusta chiamarla filiera corta ed e’un tentativo di salvare l’agricoltore che con la prossima imu ha già un piede nella fossa.Comprando a km0 immetti energia nel territorio dove vivi e lo fai sviluppare ,a sottrarla ci pensa il nostro stato ,miope come non mai.Salute atutti

        • Giorgio Fidenato

          Caro Bisastà, innanzittutto ti ringrazio per i complimenti, che colgo essere sinceri. Volevo anche risponderti nel merito delle tue considerazioni, con un esempio. Tutti parlano, come te dell’importanza del prodotti tipici e del km zero. Prendiamo il baccalà alla vicentina con polenta. Di km zero c’è solo la polenta. Ma di tipico, del vicentino non c’è niente perché ne il mais ne tantomeno il baccalà sono tipici di Vicenza. Questo per farti vedere quanto sia importante il commercio, lo scambio di prodotti di idee di culture. Poi a Vicenza queste due cose, insieme alla cultura dei Vicentini si sono esaltati. Poi lo sai tu che l’agroalimentare italiano sta in piedi grazie all’esportazioni che si fanno negli altri paesi. E allora che senso ha parlare di km zero, quando tu stai in piedi grazie alle esportazioni dei tuoi prodotti a miglia di km di distanza. Poi, se tu leggi questo sito, non puoi venirmi a dire che la colpa dei capannoni chiusi, dei cassaintegrati sia colpa della globalizzazione. I cassaintegrati non sono colpa della delocalizzazione, ma la delocalizzazione è il risultato (in poche parole) dell’interventismo dello stato. Non confondere gli effetti con le cause!!!! L’energia nel territorio si immette lasciando libertà agli individui di intraprendere, reintroducendo una moneta sana e leale, facendo in modo che gli individui si esprimano liberamente nelle comunità dove vivono, lasciando il frutto del proprio lavoro nelle tasche di chi lo ha creato e lasciando che poi questi vadano alla ricerca della migliore. Tutto il resto, credimi, sono solo baggianate di quelli che vedono il tempo andato come l’età dell’oro. Non era e non è così e tutte le difficoltà che stiamo oggi vivendo hanno nome e cognome: interventismo, statalismo. Non centra niente il km zero!!! Se poi intendiamo il km zero come una chiusura verso gli altri, andiamo dritti dritti verso la miseria!!!!!!

  • Fidenato Giorgio

    @Butti.- Io non sono contro le comunità locali, ma quando si chiudono in se stesse nella contemplazione del bel tempo andato e pretendono di limitare la libertà personale in nome della tradizione, allora sono dalla tua parte, completamente d’accordo con te!!!!!

  • CARLO BUTTI

    Bell’articolo. Altra manciata di fango contro le minipatrie e il “piccolo è bello”. Il mercato è il mondo e dobbiamo essere cosmopoliti. L’antimercatismo con tutte le sue malinconie e l’esaltazione delle piccole patrie con le loro bandierine e i loro vernacoli sono due facce della stessa medaglia: lasciamoli ai Tremonti, agli Zaia e ai loro amici. Che c’entriamo noi con loro?

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