In Anti & Politica

di PIERO OSTELLINO*

Da dove saltano fuori i miliardi che il recente vertice europeo ha destinato alla stabilità e alla crescita dei Paesi colpiti dalla crisi dei debiti sovrani? Provengono dalle tasse pagate dai cittadini di quegli stessi Paesi. Si dice che hanno vinto l’ Italia, la Francia e la Spagna, Paesi finanziariamente poco virtuosi, sulla virtuosa Germania. I tedeschi non esultano alla prospettiva di pagare i debiti degli altri, ma neppure i Paesi beneficiati hanno di che esultare. Quello in corso è un esempio di dirigismo a spese delle sue stesse vittime. Primo: perché il dirigismo riduce Stati indebitati e loro cittadini a mendicanti di una carità (pubblica) esercitata con i loro stessi soldi. Con la mano fiscale nazionale, i singoli Stati sottraggono risorse ai propri cittadini e contribuiscono alle spese dell’ Unione Europea; con la mano unitaria, l’ Ue restituisce parte di quelle risorse ai singoli Stati il cui potere politico ne fa un uso discrezionale a favore dei propri «clienti» (banche e quant’ altri). Secondo: perché la società civile avrebbe, probabilmente, impiegato, e ancora impiegherebbe, meglio le risorse che le sono confiscate con le tasse e (parzialmente) restituite dal potere tecnocratico europeo e da quello politico nazionale secondo logiche sulla cui produttività è lecito qualche dubbio. Terzo: perché, in tal modo, si riducono le probabilità che gli Stati beneficiati facciano le riforme che ne accrescerebbero le virtù pubbliche, ne migliorerebbero l’ efficienza, riducendone il debito, e li metterebbero al riparo dalle pressioni della speculazione internazionale. Non è una questione teorica o ideologica – liberalismo economico contro dirigismo politico – ma politica e di senso comune. È politica in quanto maggiore è il potere discrezionale che la disponibilità di risorse conferisce alla sfera pubblica, minori sono gli spazi di autonomia di quella privata con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti: eccesso di spesa e di pressione fiscale da parte dello Stato, riduzione delle capacità di accumulazione di ricchezza da parte della società civile. È di senso comune in quanto è storicamente provato che la dispersione e lo spreco di risorse da parte del potere politico è maggiore della dispersione e dello spreco da parte del mercato nella produzione di ricchezza. La sola giustificazione che il dirigismo ha è di rispondere alla domanda di sicurezza che emerge da una società civile spaventata dalla crisi e disposta, perciò, a sacrificare la propria autonomia alla rassicurazione che la sfera pubblica le offre di porvi rimedio in cambio di un accrescimento del proprio potere. La partita di giro economica (e

finanziaria) è, così, mistificante anche sotto il profilo politico e della conta dei costi e dei ricavi delle parti in causa. Puntualmente, la storia si ripete. Tutto è incominciato con la politica monetaria della Federal reserve americana (la Banca centrale pubblica): costo del denaro pressoché a zero; nascita della bolla speculativa edilizia, prodotta da crediti facilmente ottenibili, ma difficilmente restituibili non appena il mercato immobiliare fosse caduto; creazione, da parte delle banche esposte, di derivati altamente rischiosi a garanzia dei propri prestiti; derivati finiti sul mercato mondiale, acquistati dalle banche, e venduti ai propri clienti, col risultato di produrre un contagio generalizzato. La Fed aveva fornito informazioni distorsive al mercato interno americano, inducendolo in errore; il mercato interno aveva trasferito a quello mondiale le proprie soluzioni; quest’ ultimo le aveva prese per buone. La crisi è diventata internazionale e, in Europa, si è innestata su quella dei debiti sovrani. Mises, Hayek e la Scuola austriaca avevano già spiegato le conseguenze (negative) di certe azzardate «interferenze» pubbliche sul funzionamento del mercato, ma pare destino della cultura liberale – diceva il nostro Einaudi – predicare inutilmente e dell’ esperienza storica non essere di alcun insegnamento. Siamo al trionfo dell’ interventismo pubblico e del paradosso conseguente: si corre ai ripari, col keynesismo, dei danni prodotti dallo stesso keynesismo attraverso la politica di deficit spending, come stimolo allo sviluppo e all’ occupazione, che ha creato colossali debiti pubblici. Ci vorranno anni per tornare alla normalità. Da noi, il Pil chiude sotto zero, scontando debolezze produttive antiche cui la riforma del mercato del lavoro di Elsa Fornero cerca di rimediare; i consumi, compresi quelli alimentari, sono crollati, e persino il gettito fiscale ne risente, dopo le ultime stangate fiscali; si attende, messianicamente, una «crescita» che non si capisce come potrebbe prodursi in tali condizioni e si procrastinano le riforme

– radicale semplificazione legislativa e amministrativa, revisione del sistema giudiziario – che, liberando la società civile (e il mercato), rilancerebbero il Paese. Ma a dirlo siamo rimasti in pochi.

*Corriere della Sera, 3 luglio 2012

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