In Libertarismo, Saggi

DI REDAZIONE

Stando agli ultimi dati disponibili, in America sta avvenendo una rivoluzione urbanistica che finirà con il coinvolgere anche la politica, o meglio la filosofia della politica e il concetto stesso di Stato. Già da diversi anni, infatti, un numero crescente di cittadini americani, stanchi per l’insicurezza, il degrado urbano e la pessima qualità dei servizi forniti dalle amministrazioni municipali, hanno iniziato a fare da soli, organizzando la propria vita collettiva in maniera del tutto indipendente: riunendosi in associazioni, creando aree cittadine inaccessibili agli estranei indesiderati, stabilendo liberamente le proprie regole di convivenza, provvedendo a tutte le loro necessità (compresi il rifornimento idrico, la pulizia delle strade, le scuole, la sicurezza), e arrivando a spingere la loro richiesta di autonomia fino a pretendere di essere esentati dal pagamento delle imposte comunali.

Queste Enclave private, una delle ultime si chiama “Ave Maria”, in Florida, sembrano aver risolto tutti i problemi che assillano gli inferni urbani delle città statalizzate: grazie ai controlli all’entrata la criminalità è quasi scomparsa, l’inquinamento è inesistente, tutto è perfettamente pulito e in ordine. Non è quindi un caso che negli ultimi 30 anni sono stati costruiti negli Usa 150mila città private, in cui vivono 30 milioni di persone, un americano su otto! Cifre, secondo alcuni, destinate a raddoppiare nei prossimi dieci anni: Evan McKenzie, uno studioso che ha scritto un libro intitolato Privatopia – su questo argomento, sostiene che tali quartieri ospiteranno nel prossimo secolo il 30 per cento della popolazione americana. Alcune di queste città private contano decine di migliaia di abitanti: Sun City, in Arizona, ha 46mila residenti, dieci centri commerciali, piscine, parcheggi, pompieri, polizia, ospedali; la cittadina di Reston, nel Nord Virginia, ne ha 56mila; Disneyworld da Orlando, in Florida, è una città (estesa più o meno come San Francisco) interamente di proprietà della Walt Disney, che gode della più completa autonomia fiscale ed urbanistica, ed è visitata ogni anno migliaia di visitatori. Molte di queste città private sono mega-ospizi di lusso per gli anziani, situati per lo più nei caldi Stati della Florida, della California, del Texas e dell’Arizona.

Per comprendere il modo in cui queste privatopie sono organizzate, basti pensare ad un enorme condominio allargato fino a comprendere tutte le strade circostanti, le zone pedonali, i giardini, i parchi, i parcheggi, e così via. Queste città sono private nello stesso senso in cui lo sono gli apparta-menti o gli edifici: così come senza il permesso del proprietario non si può entrare, allo stesso modo non si può penetrare liberamente in una città privata. E come il condomino deve rispettare il regolamento condominiale, così il residente deve rispettare le leggi condominiali. Nella città privata il Municipio è dunque costituito dall’assemblea condominiale dei proprietari. In altri casi la città è in proprietà di un unico soggetto, il quale sarà incentivato, al fine di attirare il massimo numero di abitanti e di poter alzare i canoni d’affitto, a governarla nel miglior modo possibile, e ad emanare le regole interne più in sintonia con le esigenze dei residenti.

I regolamenti interni delle privatopie sono talvolta molto rigorosi: alcune città private, infatti, non accettano bambini, animali, oppure possono imporre di colorare la casa in un certo colore, o di tagliare l’erba del giardino in determinato modo, e così via. In tutto questo non vi è nulla di illiberale o autoritario, perché, a differenza delle città statalizzate, le cui regole sono imposte dai politici e dai burocrati, le città private sono abitate da persone che unanimemente hanno scelto di viverci proprio perché gradiscono le sue regole interne, e volontariamente hanno deciso di sottoporsi alla giurisdizione di questi governi contrattuali. Sottoscrivendo il contratto d’acquisto dell’appartamento, infatti, il residente aderisce contestualmente ad un pacchetto di clausole che lo obbligano a rispettare determinati obblighi e a versare le somme necessarie per il mantenimento dei servizi di comune utilità.

Se le privatopie continuano a diffondersi a questa velocità, le conseguenze politiche potrebbero essere dirompenti, fino a sconvolgere i tradizionali canoni della filosofia politica e del diritto pubblico. Le città private, infatti, da un lato fanno diventare realtà i sogni dei fautori dello Stato minimo o della scomparsa dello Stato, e confutano la dominante teoria dei beni pubblici, secondo cui solo lo Stato sarebbe in grado di fornire i beni d’utilità generale. Le città private dimostrano invece che non vi sono limiti a quello che la società civile è in grado di creare attraverso l’associazionismo volontario e la libera contrattazione. Vengono così meno gran parte delle motivazioni con cui gli Stati pretendono di giustificare le loro richieste di tassare e regolamentare i comportamenti dei propri cittadini, le cui richieste di autonomia rappresentano allora la risposta a problemi d’insicurezza e di degrado del territorio ai quali lo Stato, a causa delle manchevolezze e delle inefficienze insite nella proprietà pubblica e nell’azione burocratica, non è in grado di porre rimedio, e che hanno origine nell’impossibilità per le popolazioni residenti, prive di diritti di proprietà sulle aree pubbliche, di controllare i propri spazi di vita.

Dall’altro lato, le città private rappresentano qualcosa di molto vicino ad un reale contratto sociale. Qui non siamo infatti in presenza, come nelle nostre attuali democrazie, di un truffaldino contratto sociale alla Rousseau, che nessuno in realtà si è mai sognato di stipulare, se non i giacobini di destra e di sinistra. Al contrario, nelle privatopie il contratto sociale trova per la prima volta attuazione non come fasulla “volontà generale”, ma come insieme di reali e liberi atti di consenso prestati da individui in carne ed ossa.

Alla fine di questo processo, oggi solo agli inizi, il modello uniformante di Stato che conosciamo potrebbe uscirne completamente modificato, per lasciare il posto ad un ordine pluralista, fondato su relazioni non verticali e gerarchiche ma orizzontali e paritarie (come i patti federali e il contratto privatistico, tanto per fare due esempi lampanti), in cui i singoli individui potranno scegliere il livello di governo territoriale più idoneo alle proprie esigenze. Un bell’esempio per capire come la società libertaria del futuro potrebbe funzionare.

ECCO UN LIBRO ILLUMINANTE

TITOLO: La città volontaria

AUTORI: David T. Beito, Peter Gordon, Alexander Tabarrok (a cura di)

Prefazione di Vito Tanzi

Storicamente, la città è stata sempre considerata uno spazio di libertà. E è al suo interno che potevano fiorire i commerci, la cultura, l’innovazione. Le città odierne hanno in larga parte smarrito molte di quelle caratteristiche, divenendo un concentrato di insicurezza e frustrazioni. Per giunta, nel nostro tempo le metropoli tendono quindi ad essere associate al proliferare di burocrazie inefficienti e ai fallimenti dell’intervento statale.

Questo volume si propone di mostrare come l’esperienza occidentale sia stata ricca di soluzioni volontarie e spontanee nei più diversi settori, le quali sono riuscite a creare ambienti ospitali senza fare ricorso alla costrizione. Ci ricorda insomma di come un tempo la società civile sia stata capace, attraverso le associazioni volontarie di persone accomunate dalla stessa sensibilità e dalla medesima professione, di produrre beni pubblici.

TITOLO: La città volontaria

AUTORI: David T. Beito, Peter Gordon, Alexander Tabarrok (a cura di)

Prefazione di Vito Tanzi

Storicamente, la città è stata sempre considerata uno spazio di libertà. E è al suo interno che potevano fiorire i commerci, la cultura, l’innovazione. Le città odierne hanno in larga parte smarrito molte di quelle caratteristiche, divenendo un concentrato di insicurezza e frustrazioni. Per giunta, nel nostro tempo le metropoli tendono quindi ad essere associate al proliferare di burocrazie inefficienti e ai fallimenti dell’intervento statale.

Questo volume si propone di mostrare come l’esperienza occidentale sia stata ricca di soluzioni volontarie e spontanee nei più diversi settori, le quali sono riuscite a creare ambienti ospitali senza fare ricorso alla costrizione. Ci ricorda insomma di come un tempo la società civile sia stata capace, attraverso le associazioni volontarie di persone accomunate dalla stessa sensibilità e dalla medesima professione, di produrre beni pubblici.

Si tratta di un libro imperdibile, soprattutto per rispondere a quelle domande che gli statalisti sono soliti – e anche legittimamente – porre. Ma come si possono garantire servizi senza l’esistenza dello Stato?

Pagine: 412

Prezzo: 16 euro

Leonardo Facco Editore-Rubbettino (IBL)

ORDINALO A [email protected]

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Showing 5 comments
  • Albert Nextein

    Sono interessanti.
    Da provare, da studiare.
    Sempre armato, però.

  • Alessandro Colla

    Non la soluzione ma comunque l’inizio. In attesa di liberarsi anche dalle tasse federali o centrali.

  • Max

    “pretendere di essere esentati dal pagamento delle imposte comunali” cioè casa e raccolta rifiuti, ma – mi pare di capire – quelle non da quelle federali che sono le più pesanti.

    Un’opportunità di scelta (io non la farei mai perchè trovo le sun cities noiose e fasulle come Gardaland, ma sono felice che ci sia per chi la vuole), ma non certo la soluzione.

    • Max

      *federali o forse meglio statali

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