In Economia

DI PIETRO AGRIESTI

Durante questi mesi chiuso in casa ho passato più tempo del solito a giocare ai videogiochi e ne ho acquistati diversi in offerta su Steam. Ho anche guardato molti più film, e in particolare ho esplorato il catalogo di Amazon Prime. Non potendo mangiare fuori, ho di tanto in tanto ordinato da asporto da Just Eat o da Uber Eat. E ho lavorato da casa sentendo i colleghi su Zoom, su Skype e su Slack. Perché racconto tutte queste cose?
Mi ricordo le tante battaglie politiche portate avanti contro Amazon, contro i rider, contro Uber, i discorsi contro gli acquisti online e quelli contro i supermercati e contro la grande distribuzione e quelli contro i social e quelli contro gli smartphone e tanti altri ancora… Immaginate affrontare il lock down senza acquisti online e senza supermercati e senza rider e senza smartphone, che bello! E senza  telelavoro?
Cosa sarebbe successo se gli infiniti discorsi contro tutto questo fossero passati? Quante occasioni in meno? Quante meno opportunità di lavoro? Quante meno comodità? Quanti meno piaceri? Quante meno scoperte? Quante meno opportunità di scoprire i film di genere o di nicchia che si trovano su Prime? O quante meno opportunità per i piccoli produttori di videogiochi, senza piattaforme come Steam? O per i giornalisti indipendenti e i divulgatori? E per l’autoproduzione e l’autofinanziamento? O per la condivisione di studi e ricerche? O per il lavoro in team?
Il punto è che se avessimo messo più divieti e regolamentazioni più strette, se avessimo impedito e sabotato queste innovazioni, non lo avremmo mai saputo. Non avremmo saputo che ci mancavano Steam e Prime. O Facebook e Whatsup. O Just Eat e Uber Eats. O Zoom e Meet. O i videogiochi indie. O Kick Starter e Patreon. O YouTube e Medium. O Drive e GitHub. O l’home banking e gli eBook. E se fossimo riusciti a sabotare tout court gli smartphone, la sharing economy o perché no? il web intero? o i supermercati e la grande distribuzione?
Se avessimo rifiutato il commercio internazionale, lo scambio culturale, la globalizzazione economica, il mercato, la divisione del lavoro, l’avanzamento tecnologico, che rendono possibili tutte queste cose e infinite altre, in misura tale da impedirne la nascita, non avremmo avuto idea che queste cose ci mancavano. È solo perché sono venute ad essere, che oggi possiamo dire che ci sarebbe dispiaciuto altrimenti. Non avremmo mai saputo cosa ci stavamo perdendo. Sì, qualcuno avrebbe potuto fare vaghi discorsi sulla mancata innovazione, le opportunità perse, la minore mobilità sociale, etc… , ma non avremmo potuto vedere e toccare ciò a cui rinunciavamo.
Non avremmo saputo di aver perso l’opportunità di lavorare nel settore dei videogiochi, o degli e-commerce, o delle app, o dell’informatica, o della domotica, o di qualsiasi altra cosa. Non avremmo saputo di non poter acquistare questi prodotti e servizi. Di non poter investire in questi settori. Di non poter avere queste comodità.
Non avremmo potuto sapere neanche cosa stavamo proibendo. Se avessimo impedito internet a suo tempo, non avremmo mai saputo che avevamo impedito il Post, o YouTube, o Facebook, o World of Warcraft, o Wikipedia, o Kickstarter, o Google Map o Amazon o Enjoy. Nel fare la scelta di proibire non avremmo potuto valutarla sapendo cosa stavamo proibendo.
Ora meno male che non siamo stati così pirla da proibire e impedire tutte queste cose… fiuuu… scampato pericolo?! Non così in fretta: pensiamo a tutte le cose che ABBIAMO proibito, a tutti i divieti, le regolamentazioni, le tasse, le misure protezioniste, etc… A tutte le limitazioni del mercato, del commercio, dello scambio, della ricerca, della libera impresa, che abbiamo.
Naturalmente non possiamo vedere quello che abbiamo perso. Le cose che non abbiamo. O che avremmo potuto avere prima. O a un prezzo molto minore e quindi molto più accessibile. Non sappiamo esattamente cosa abbiamo ucciso prima che potesse vedere la luce.
Le cose evolvono in modi impensati. Tecnologie, innovazioni, scoperte, idee si contaminano, si combinano e figliano in modi imprevedibili. Possiamo vedere quello che abbiamo preservato: se preserviamo per legge il fruttivendolo, il piccolo libraio, la piccola azienda agricola locale, questi li possiamo vedere.. ma sull’altro piatto della bilancia il costo di queste scelte è invisibile.
È difficile confrontare ciò che si vede con ciò che non si vede, ma se pensiamo da un lato a tutto quello che abbiamo e dall’altro alle tante restrizioni che sono in essere o che vengono chieste, possiamo stare sicuri che c’è un mondo di progressi tecnologici e scientifici, di opportunità di lavoro, di investimento e di risparmio, di beni e servizi, di opportunità culturali, di comodità e divertimenti, che è stato ucciso in culla.
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  • vetrioloblog

    Brillantissima ed attualissima applicazione della mirabile lezione del Frédéric Bastiat di “Ciò che si vede e ciò che non si vede”

  • Alessandro Colla

    Distinguerei, però, Russia e Cina. Al di là dei loro personali contenziosi territoriali, nel caso russo si può parlare di situazione autoritaria mentre nel secondo di totalitaria. E l’Italia sembra mostrare più simpatia per il totalitarismo che per l’autoritarismo. Non spenderei parole di speranza, invece, per certi nostrani personaggi. Non so Cottarelli, perché si conosce poco; ma Prodi mi sembra poco ascrivibile alla categoria di coloro che apprezzano il valore del mercato e dell’impresa. Mi dà più l’impressione del classico cattocomunista che quando parla di tempo limitato utilizza tale espressione solamente per cucire un’alleanza con qualcuno, salvo poi tradirla quando si è conquistato il potere esecutivo. Magari col trucco e con leggi elettorali truffaldine, come avvenne nel 1996 e nel 2006. Lo considero soggetto pericoloso e inaffidabile in misura maggiore dei vecchi esponenti del vecchio partito dichiaratamente comunista. Il suo obbiettivo non nascosto è il Quirinale e nel 2013 abbiamo rischiato. Il biennio in più di Napolitano è stato il male minore anche se oggi abbiamo al colle un clone di Prodi in versione isolana e renziana.

  • Fabio Colasanti

    un bell’articolo di Panebianco che rileva, anche lui, come il covid sia stato una splendida occasione per militarizzare l’intera economia italiana. Come al solito, se e quando riusciremo a rialzarci sarà nonostante -e non grazie- lo Stato Onnipotente:

    “Chiunque conoscesse i suoi polli sapeva , o quanto meno temeva, fin dall’inizio, che l’Italia avrebbe tratto , dalla tragedia della pandemia, la lezione sbagliata.
    La lezione giusta sarebbe: in nulla vogliamo assomigliare alla Cina . Non solo — e questo è ovvio — non intendiamo importare l’ autoritarismo che le permise di nascondere l’epidemia nella fase iniziale(quando ancora avrebbe potuto bloccarla). Ma nemmeno vogliamo imitare o scimmiottare il suo capitalismo di Stato, il quale è il necessario, inevitabile, corollario dell’autoritarismo. E invece no: il capitalismo di Stato sembra ora avere qui da noi molti estimatori. Dentro e fuori la maggioranza di governo. Nonché in certi settori dell’opinione pubblica.
    I mai scomparsi nemici del mercato e della libera impresa hanno trovato nella pandemia un’ottima occasione per venire all’incasso. I suddetti si dividono, da sempre, in due categorie: quella dei lucidi, dei consapevoli e quella degli inconsapevoli. I lucidi sanno benissimo che più cresce la presenza dello Stato nell’economia più cresce anche il tasso di autoritarismo in tutti gli altri ambiti della vita sociale, politica in testa.
    Nessuna delle principali varianti del capitalismo di Stato (né quella russa né quella cinese né altre ancora) coesiste con la democrazia nel senso occidentale del termine. I lucidi lo sanno e approvano. Consapevolmente, lucidamente, sono nemici della società libera, detestano la democrazia liberale. Poi ci sono (e, stando ai sondaggi, c’è da temere che siano tanti) gli inconsapevoli, quelli che credono che sia possibile restringere le libertà economiche senza che ciò pregiudichi il godimento delle libertà politiche e civili.
    Gli inconsapevoli non sanno che la libertà non si può tagliare a fette: se si sopprime o si limita la libertà politica farà una brutta fine anche quella economica. E viceversa. Essi ignorano l’antico detto liberale secondo cui: «Se le cartiere appartengono allo Stato non ci può essere libertà di stampa». La pressione, la spinta, esercitata dallo «spirito del tempo» (oggi sfavorevole al mercato per lo meno in Italia), le propensioni culturali e gli orientamenti prevalenti nella classe politica , di governo (ma non solo), hanno creato condizioni tali per cui anche molti, e parlo di personalità di primo piano nella nostra vita pubblica, che certamente apprezzano il valore del mercato e delle imprese, sembrano rassegnati di fronte all’incombente ondata statalista. Sembrano soprattutto preoccupati di limitare il più possibile gli inevitabili danni che produrrà la suddetta ondata. È il caso, ad esempio, o così mi sembra, di Romano Prodi ( Corriere , 2 giugno) e di Carlo Cottarelli ( Corriere , 3 giugno). Prodi spera che la partecipazione dello Stato tramite la Cassa depositi e prestiti alla governance delle imprese sia limitata ai casi di imprese strategiche, indispensabili per il nostro futuro. Ma si augura anche che «il necessario intervento pubblico sia un fatto temporaneo». Carlo Cottarelli condivide, anche lui auspica che l’intervento pubblico sia «temporaneo». A costo di passare per pedanti dovremmo stabilire il significato del termine. Occorre decidere che cosa si intenda per «temporaneo»: sei mesi? Un anno? Un decennio? Un cinquantennio? Non si tratta di un elastico che si può allungare o restringere a piacere. Se c’è una forte crescita dell’intervento pubblico, se lo Stato diventa azionista di tante imprese, si formano immediatamente fortissimi interessi, partitici e sindacali, tesi alla difesa del (nuovo) status quo . Dopo di che tornare indietro non è più possibile oppure lo è soltanto per effetto di durissime battaglie politiche. Inoltre, non c’è solo il fatto che è molto difficile limitare nel tempo l’intervento. È difficile anche circoscriverne l’ampiezza. Chi decide (se non la politica nella sua piena discrezionalità) quali siano le imprese strategiche in cui l’intervento pubblico sia reso necessario in vista della tutela dell’interesse nazionale e quali no? Immaginare il peggio aiuta, a volte, ad evitarlo. Pur sperando in esiti diversi possiamo fare qualche ipotesi realistica su come verranno impiegati i fondi a disposizione della classe politica di governo. Una parte, come già oggi accade, probabilmente, finirà in sussidi, distribuita a pioggia alle più diverse categorie. Servirà, in certi casi, ad alleviare sofferenze provocate dalla pandemia ma contribuirà poco alla ripresa economica del Paese. Anche se, forse, ne discenderà, per l’una o per l’altra forza politica, qualche vantaggio elettorale. Un’altra parte servirà come contropartita per accrescere l’intervento pubblico nell’economia. Infine, la parte che, in assenza di contropartite e altri frutti avvelenati, potrebbe ridare immediatamente slancio al sistema delle imprese tarderà molto ad arrivare a causa dell’inefficienza dell’Amministrazione pubblica.
    Forse, quando fra qualche anno sarà possibile fare un bilancio, si scoprirà che la ripresa economica, che oggi auspichiamo, sarà stata resa possibile soprattutto dalla capacità delle imprese, o di una parte di esse, di ristrutturarsi autonomamente riprendendo forza e slancio. A dispetto dei santi.
    C’è comunque da sperare che vinte certe ottuse opposizioni ideologiche, sia almeno possibile (come ha scritto Maurizio Ferrera sul Corriere di ieri) fare ricorso ai fondi del Mes per migliorare le nostre strutture sanitarie. È vero, per un cinquantennio (durante la cosiddetta Prima Repubblica) c’era un’amplissima economia pubblica, statale. Era l’epoca detta dell’economia mista. Ciò nonostante, mantenemmo nello stesso periodo una sia pure malandata democrazia.
    Come mai? La risposta è che c’era la guerra fredda e noi eravamo ancorati al blocco occidentale. Conservammo democrazia e libertà non per merito nostro ma in ragione delle condizioni internazionali dell’epoca. Quelle condizioni non ci sono più. Gli ancoraggi si sono indeboliti. E, con essi, i freni inibitori. Come mostra il fatto che, stando ai sondaggi, ci sono ormai in questo Paese estese simpatie per le potenze autoritarie, Russia e Cina.
    Nelle nuove condizioni tornare al passato, alla famosa «economia mista», non significa soltanto mettere a rischio o quanto meno comprimere le libertà economiche.
    Significa fare la stessa cosa anche con le altre libertà.
    Nessuna esclusa. “

  • Alfonso Rossi

    Bell’articolo!

  • Alessandro Colla

    “Ad aver posto più ostacoli nei secoli sono sempre state le religioni”. Giusto. I maggiori ostacoli provengono oggi dall’islam che però ha il merito e la sincerità di dichiararlo apertamente. Il peggiore ostacolo in assoluto è il marxismo, il vero oppio dei popoli nonché la peggiore delle religioni in quanto si spaccia per qualcos’altro. E spiega involontariamente il perché definire progressista chi è di sinistra sia non un semplice equivoco ma un palese se non addirittura sfacciato ossimoro.

    • Giovanopoulos

      Cinque righe le tue da incorniciare.
      Ps. “… così noi, dopo non aver capito ieri che il comunismo era una religione truccata da programma politico, non capiamo oggi che il fondamentalismo e l’integralismo islamici sono un programma politico truccato da religione”.
      (da “Lo Stato Canaglia” di Piero Ostellino)

  • Malgaponte

    L’idea di fondo è sempre stata quella di ostacolare il progresso e, pensateci bene, chi ha posto più ostacoli nei secoli sono sempre state le religioni. Se dipendesse da una certa parte dell’umanità saremmo ancora ancora all’entrata di una caverna a squoiare la selvaggina appena cacciata.

    • spago

      Se pensiamo che oggi la sinistra si professa progressista e propone di tornare nelle caverne (proposta incidentalmente genocida)

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