In Anti & Politica

DI CRISTIAN MERLO*

È ancora sciaguratamente sin troppo diffuso il pensiero, in base al quale l’assenza di gettito produrrebbe la mancanza di “belle aiuole, strade, scuole, ospedali e tutta una serie di servizi pubblici considerati essenziali”. Lo Stato, quindi, sarebbe costretto ad aumentare le aliquote su chi non può evadere a fronte di troppi furbi che non pagano. Se tutti pagassero le tasse, ci dicono, tutti pagheremmo meno. Quante volte lo abbiamo sentito ripetere? Un refrain trito e ritrito, un ritornello martellante ed asfissiante, un mantra  tanto inconsistente quanto ormai stomachevole. Cosa c’è di vero? Niente! Ma del resto, Joseph Goebbels, ministro della propaganda del regime nazista,  lo sapeva bene:  ”Ripetete una bugia cento volte, mille volte, un milione di volte, ed essa diventa una verità“.

La verità, al contrario, – logicamente desumibile, scientificamente dimostrata, storicamente realizzata – è che i parassiti più ne hanno e più ne spendono. È una spesa pubblica dissennata, fuori controllo e folle, pretesa da un Moloch mostruoso e vorace, che riscontra nell’inefficienza e nello spreco la propria ragione di esistenza e di crescita, a generare una pressione fiscale insostenibile. Sarebbe persino imbarazzante sostenere il contrario. Ad ogni modo, vi sono tanti, troppi produttori di tasse a non pensarla così: forse rincitrulliti dal quotidiano lavaggio di cervello cui vengono sottoposti, forse illusi dalle sirene tentatrici (ma terribilmente ingannevoli) dell’interventismo redistribuzionista; o, ancora, vittime inconsapevoli  di qualche sorta di Sindrome di Stoccolma. Ma tant’è…

Eppure, se fosse magicamente possibile, per via di qualche strano artifizio, dissociare  la parte “buona” del processo di redistribuzione (che, secondo la mistica dell’iconografia demagogica contemporanea, si concretizzerebbe nel conseguimento della tanto agognata “giustizia sociale” per mezzo di un’allocazione compensativa di risorse, attuata mediante la tassazione generale e la regolamentazione coattiva, tra chi possiede di più e chi possiede meno o molto meno) da quella  “cattiva” (il complesso dei sovraccarichi collaterali e degli extra-costi impliciti in qualsiasi attività di interposizione dello Stato o della pubblica amministrazione in genere), la semplice eliminazione di fenomeni, che nemmeno il suo più fervente sostenitore potrebbe, in buona fede, giustificare,  consentirebbe ai produttori di aprire finalmente gli occhi su alcune verità elementari, ma da troppo tempo neglette. L’individuo responsabile potrebbe così cominciare ad avvedersi non solo di quale possa essere l’effettivo valore della propria compartecipazione alle dinamiche produttive, ma, in taluni casi, anche della differente struttura dei prezzi, di beni e servizi, che si verrebbe a registrare sul mercato, in assenza dei prelievi ingiustificati e dei sovraccarichi parassitari frutto delle imboscate tese dallo Stato e dai suoi manutengoli. La liberazione di risorse, sino a quel momento taglieggiate dai signori delle corvée solidaristiche e suscettibili di essere altrimenti utilizzate in impieghi alternativi assai più profittevoli, permetterebbe così ad ognuno di capire la vera natura della tassazione e del fenomeno impositivo in genere. Un fenomeno che non solo arreca esiziali pregiudizi ai diritti di proprietà e di iniziativa privata; che non solo frustra il merito, l’ingegno e l’industriosità; che non solo mortifica nuove opportunità e possibilità, in ragione del fatto che colui che le ha create o ha contribuito a crearle non può trattenersi i frutti legittimi degli sforzi e degli investimenti effettuati per giungere alla loro scoperta;  ma che elimina altresì, sul nascere, qualsiasi propensione all’esplorazione e alla ricerca, a causa della immane alterazione degli incentivi all’azione e all’impiego produttivo delle risorse, e a fronte della pregiudizievole distorsione del libero esercizio di scelta tra lavoro e tempo libero.

Un simile esperimento mentale avrebbe, se non altro, il grande merito di squarciare in maniera definitiva uno dei “veli di Maya” che, da sempre, avvolgono la natura dello Stato interventista e gli intoccabili tabù che ne costituiscono l’immancabile corollario ideologico. Non vi sarebbero più alibi e vana sarebbe ogni pretestuosa escursione sugli specchi: non si potrebbe far altro che constatare che il drenaggio e la distrazione di risorse preziose si sostanziano, innanzitutto e primariamente, proprio in quella pletora dionerosissimi costi di intermediazione politico- burocratica che invariabilmente assistono le dinamiche di intervento pubblico. E che rivengono da eccessi burocratici funzionali al solo mantenimento dell’apparato; da sprechi clientelari sistemici e sistematici; da ignobili politiche assistenzialistiche finalizzate esclusivamente alla ricerca del consenso e all’acquisto di voti;  da una  incertezza legislativa diffusa ed autoreferenziale; da inefficienze operative e procedurali altrimenti inutili; dalla strutturale e fisiologica mala gestio, che si riverbera in ogni interstizio del viver civile e che funge da moltiplicatore alla folle ed inarrestabile volontà di autoaffermazione del sistema. Per non parlare, ovviamente, di ben altri fenomeni – quali corruttela, mazzette e ruberie varie – che trovano una feconda alimentazione ed una spinta propulsiva straordinaria proprio nelle pieghe della inefficienza endemica, tipica dei processi di allocazione politicizzata delle risorse.

Trattasi di inquadrare il problema ponderando l’incidenza di  quella che è una vera e propria tangente: collaterale, ma connaturata e compenetrata sia al funzionamento di una macchina redistributiva già di per sé improduttiva ed esosa,  sia al  mantenimento di una spesa pubblica generata per via di monopoli legali, inefficienti e parassitari per definizione. I costi in parola si traducono, in primo luogo,  in una contrazione, hic et nunc, del reddito spettante a corrispettivo dell’effettivo contributo prestato al soddisfacimento dei bisogni individuali, mediante i canali della produzione e del libero scambio.

Di fatto, considerato il ricorso a meccanismi capziosi  ed opachi quali, ad esempio, le trattenute alla fonte o le logiche dei sistemi a ripartizione, il produttore non viene solo blandito e pressoché deprivato della possibilità di rendersi conto di quanto abbia dovuto in realtà cedere per ottenere dei beni e dei servizi che, a prescindere dalla qualità della fornitura, reputa di avere ottenuto in via del tutto gratuita, in ciò sbagliando clamorosamente. Ma tali meccanismi sono altresì in grado di disseminare nebbie circa la portata e l’incidenza di una erosione supplementare del suo potere d’acquisto, sottratto proprio per alimentare gli appetiti sconfinati di coloro che, in un modo o nell’altro, crescono e prosperano dispensando follie in ordine all’illusione della gratuità e dell’ineludibilità della fornitura della sicurezza sociale e della spesa pubblica (specie se improduttiva). Il produttore, pertanto, non solo rinuncia coattivamente a parte del suo reddito per procurarsi ciò di cui, in regime di libera concorrenza, avrebbe fatto volentieri a meno, ma si vede forzosamente obbligato a concorrere al mantenimento dei troppi parassiti che si professano interessati apologeti della bontà delle ineluttabili “magnifiche sorti e progressive” di un simile stato di cose.

La remunerazione del lavoro improduttivo e il consolidamento del parassitismo elevato a sistemavanno così di pari passo con l’idea, inculcata nella mente dei cittadini, che “se non vi fosse lo Stato, non vi sarebbe più alcuna tutela da svariati rischi, né vi sarebbero i servizi attualmente offerti da enti e aziende pubbliche, con la conseguenza che la popolazione sarebbe esposta a gravi problemi finanziari” (Vito Tanzi).  Non fa nulla se l’assenza di soluzioni alternative, o l’atrofizzazione dell’emersione di opzioni concorrenziali, dipenda propriamente dal fatto che lo Stato abbia instaurato, mediante la blindatura di specifiche zone d’intrapresa, un monopolio pubblico inaccessibile dall’esterno ed impermeabile ad ogni innovazione.

In secondo luogo, il drenaggio e la distrazione di risorse possono manifestarsi anche sotto forma di un ulteriore e complementare “attacco alla diligenza”: comprimendo quel che resta del reddito disponibile, già di per sé frutto rachitico della devastante dieta smagrente alla quale il reddito che in realtà spetterebbe è già stato sottoposto a monte. Ad essere colpiti questa volta sono i prezzi di beni e servizi che vengono distorti, nella loro dinamica strutturale, dall’abbattersi di una gragnola di tasse, imposte, balzelli, gabelle, gravami ed accise di ogni genere e specie che vanno ad impattare pesantemente sui meccanismi di pricing.

Per esemplificare, si pensi al solo prezzo della benzina: tra gravami di ogni genere e una moltitudine di accise in servizio permanente effettivo (da quella per la guerra di Abissinia del 1935 aquella per la missione in Bosnia del 1996, passando per il rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri del 2004) il consumatore, più o meno inconsapevolmente, corrisponde allo Stato italiano il 70% circa del prezzo del carburante. Su 100 euro spesi per fare il pieno dell’auto, una settantina vanno all’erario. La giustificazione di tutto ciò? Non è dato sapersi, ma, prendendo a prestito le parole di Oscar Giannino, trattasi solamente di “un prelievo ‘facile’, immediato, assicurato, una quarantina di miliardi di euro l’anno che l’erario si assicura senza colpo ferire e senza assicurare nulla in cambio”.

A prescindere da come si voglia articolare la questione, dovrebbe ormai essere del tutto evidente che il drenaggio e la distrazione sistematica determinano un impatto pregiudizievole innanzitutto sull’ utilizzo diretto delle risorse esatte, estorte dalle tasche dei legittimi proprietari.  Questi, di fatto, devono limitare o devono rinunciare all’esercizio di immediati atti di consumo, con cui avrebbero sicuramente potuto cercare di togliersi qualche soddisfazione in più, assecondando le proprie specifiche aspirazioni- in ambito spirituale, affettivo, estetico e materiale- stimate da loro, e non un burocrate irresponsabile, come più meritevoli e desiderabili di essere realizzate. Ma simili fenomeni arrecano un ulteriore pregiudizio anche alla capacità di generare delle supplementari ricchezze future: che si sarebbero potute conseguire, in assenza di distorsioni, proprio  in forza dei processi virtuosi di accumulo delle risorse e di impiego produttivo delle medesime. Ma essendo stati soppressi o repressi sul nascere,  questi processi non vedranno mai la luce. Insomma, non sarà mai detto a sufficienza che le risorse che, con incredibile sfrontatezza, lo Stato si arroga di prelevare dalla nostre tasche, sono semplicemente reddito nostro, di cui ci viene negata l’utilizzazione.

Sostanzialmente, il loro riscatto permetterebbe, senza tema di smentite, sia di incrementare le capacità di spesa individuali, che di influenzare in positivo le aspettative di crescita, incidendo positivamente sulle dinamiche di risparmio e di investimento. E, poiché “l’appetito vien mangiando”, ci si renderebbe immediatamente conto che, paradossalmente, i benefici potenzialmente conseguibili non sarebbero nient’altro che la classica punta di un enorme iceberg, che riflettono la fisionomia, nemmeno troppo rassicurante, di un impianto  farraginoso e torbido, nella misura in cui è costellato da una miriade di assurdi e pretestuosi costi di intermediazione politico-burocratica. Capaci solo di immettere, nel contesto sociale di riferimento, una instabilità sistemica, e di rendere al contempo vieppiù complessi gli adempimenti, più incerte  e vischiose le modalità operative e tanto più onerosi i prelievi.

I produttori dovrebbero finalmente prendere atto che questi costi non costituiscono affatto il presupposto  ineludibile, pur con tutte le sue negatività, del sillogismo solidarista: semmai tutto è preordinato per porre quest’ ultimo come l’alibi pretestuoso a giustificazione del sofisma su cui si regge tutta l’impalcatura redistributiva. È proprio la gestione e la dilatazione ad infinitum di questi costi che sta realmente a cuore a chi vive di Stato e per lo Stato: in quanto essi sottendono, per definizione, delle incredibili fonti di lucro e delle immense opportunità di rendita politico-elettorale per i tanti, troppi soggetti coinvolti. Siano essi carrozzoni pubblici, pletorici ed elefantiaci, dediti alla promozione della “solidarietà”; siano essi i beneficiari diretti di tale promozione, in forza della loro capacità di garantire effettivo consenso politico e/o di rafforzare il circuito in cui si esprimono le relazioni parassitarie; siano essi quell’esercito di “professionisti” dell’assistenza pubblica che di consenso e parassitismo, da sempre, vive e prospera e che non può trovare altra giustificazione plausibile se non… nel proprio istinto di autoconservazione.

 

*Link all’originale: http://www.lindipendenza.com/politica-e-burocrazia-come-morire-di-troppo-stato/

 

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Showing 2 comments
  • Roberto Porcù

    @ Drago 78 – Il problema è che prima del giro di boa eravamo tutti distratti ed oggi sono maggioranza quelli che pendono dalle tette di stato mammasantissima.
    Guardati attorno, la ribellione è una causa inesorabilmente persa.
    Bisogna attendere ed il Moloc morirà di suo appena non sarà più in grado di allattare i clientes attaccati.
    Come per l’Unione Sovietica, solo il defoult avvierà il cambiamento ed i politici che hanno imboscato fortune, si presenteranno dopo un po’ con la faccia pulita ad intraprendere e creare sviluppo.
    Affermo ciò volendo essere realista, ma a me, che mi considero sempre liberale, piacerebbero molto di più le confische dei beni e le ghigliottine nelle piazze.

  • Drago78

    E’ di poco fa la notizia che lo stato maiale grasso, grosso e sporco, sempre affamato di denari, vuole aumentare di nuovo le accise sui carburanti per la 5 volta in 6 mesi (quasi una volta al mese XD). Altri 5 cent che andranno ad infarcire lo statalismo sprecone in nome di falsi “nobili” motivi. Non capisco che stiamo aspettando a mandarli a fanculo sti tecnocrati da 4 soldi. Ormai la tassazione sui carburanti ha raggiunto il 62%, quella generale il 70% e non parliamone di quella percepita. L’Unione Europea ci ha già ammonito sull’eccessiva tassazione. Dallo statalismo e si suoi tentacoli mai ci libereremo se non ribelleremo a partire da ora.

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