In Anti & Politica, Economia

DI MATTEO CORSINI

“Francesco Giavazzi una quindicina di giorni fa scriveva sul Corriere della Sera che gli eurobond non servono a nulla; che non si salva l’Europa con le infrastrutture, perché saremmo pieni di autostrade su cui non transita nessuno per via della crisi… A leggere le dichiarazioni del presidente del Consiglio e del ministro dell’Economia sembrerebbe che sul punto vi sia un aperto contrasto, talché mi domando perché mai il governo abbia voluto annoverare tra i suoi ispiratori un economista che, con i suoi scritti, non ha mai nascosto la propria simpatia per le idee della scuola liberista di Chicago e la sua avversione alle teorie keynesiane… Gli eurobond servono esattamente a questo, a disinnescare il sistema dal sovraindebitamento… Investire le risorse che perverranno dagli eurobond in infrastrutture costituirà inoltre il volano necessario per la ripresa… I cantieri così avviati occuperebbero nuova manodopera, le famiglie di questi nuovi occupati consumerebbero di più di quanto consumano ora, generando, con l’incremento della loro domanda, nuova occupazione presso altre imprese e, quindi, nuovi consumi e nuovi redditi da tassare e così via. Le maggiori entrate che in tal modo si creerebbero verrebbero, quindi, destinate a rimborsare nel tempo gli eurobond, con una virtuosa chiusura del cerchio. Invece la ricetta del consulente del governo si concentra sulle dismissioni dei gioielli di famiglia. Gli Stati si dovrebbero liberare delle proprie proprietà: i greci dovrebbero vendere il Partenone; gli italiani il Colosseo e la Snam; i francesi (se qualcuno riuscisse a obbligarli) la Tour Eiffel e così via. Ma in questo modo, ripagato il debito, le nazioni non avrebbero più risorse patrimoniali per garantire nuovi finanziamenti necessari al loro sviluppo economico. Gli Stati si comportano come le aziende. Se per ripagare i debiti queste sono costrette a vendere il loro know how, le loro linee produttive e ridurre gli investimenti, come spesso certi piani di ristrutturazione prevedono, esse si dissolvono, a causa della perdita di capacità competitiva. Analogamente, con la ricetta della svendita dei gioielli di famiglia gli Stati sarebbero, più di quanto non lo siano già oggi, definitivamente in succube balia della Spectre finanziaria internazionale e ciò varrà anche per quei Paesi che attualmente si credono forti. La politica sarebbe costretta a fare un definitivo passo indietro e tutto verrebbe gestito secondo gli interessi privati di pochi monopoli finanziari a cui tutto sarebbe permesso sulla base della parola d’ordine del laissez faire, con la conseguenza, però, di un gravissimo rischio di deficit democratico.”  (B. Fox)

Ho riportato un ampio stralcio di un articolo pubblicato su Milano Finanza da un signore che si firma Buddy Fox, pseudonimo dietro al quale, secondo il giornale, “si cela un celebre studioso della materia fallimentare”.

Leggendo ciò che scrive, ho avuto l’impressione che di fallimentare ci sia solo quello che riterrebbe risolutivo per la crisi europea.

Quello che Fox propina ai lettori come soluzione non è altro che la più trita delle ricette keynesiane, condotte su base europea invece che nazionale. In sostanza, dato che alcuni Paesi dell’area euro hanno difficoltà a indebitarsi ulteriormente (par di capire per colpa della “Spectre finanziaria internazionale”), il nuovo debito dovrebbe essere contratto in comune. Così facendo, si riuscirebbe a “disinnescare il sistema dal sovra indebitamento”. Si noti che il presupposto fondamentale su cui si basa tutta la retorica pro eurobond è che tali strumenti avrebbero un costo medio inferiore a quello attuale, perché il maggior costo per la Germania sarebbe inferiore al beneficio che ne trarrebbero i Paesi periferici. Un presupposto forse verosimile, ma da verificare alla prova dei fatti e, quindi, da non dare per scontato. In ogni caso, sempre di debito si tratterebbe.

Ciò che i fautori degli eurobond continuano a non raccontare è che i tedeschi, qualora arrivassero a sposare il progetto, non lo farebbero senza avere in contropartita la sovranità fiscale dei Paesi che beneficerebbero maggiormente degli strumenti di debito comuni. Non si tratterebbe dell’Unione politica di cui tanto si riempiono la bocca gli euro-entusiasti all’amatriciana; bensì della germanizzazione della politica fiscale dei Paesi periferici.

Considerando come è stata la gestione dei governi italiani negli ultimi cinquant’anni non è detto che sarebbe un dramma (al netto dell’avversione che ogni libertario ha nei confronti dello Stato), ma è bene che nessuno si illuda che i tanto invocati Stati Uniti d’Europa sarebbero un’unione tra pari: dubito che i tedeschi sarebbero disposti a comportarsi con i Paesi periferici dell’Area Euro come il Settentrione d’Italia fa con il Meridione, con trasferimenti fiscali a senso unico senza ottenere nulla in contropartita.

Ciò detto, per dimostrare che le critiche di Giavazzi all’idea di emettere eurobond per costruire infrastrutture non hanno fondamento, Fox ricorre alla favola del moltiplicatore keynesiano, in base al quale lo Stato si indebita, assume persone, le quali aumentano i consumi e il gettito fiscale e, nel frattempo, costruiscono opere che genereranno flussi di cassa tali da consentire allo Stato di ripagare il debito. E vissero tutti felici e contenti…

Ci sono due piccoli problemi: 1) sarà forse (ma ne dubito) che questa ricetta non è mai stata applicata correttamente, ma l’esito più frequente è un aumento del debito da cui non si esce (a quel punto Fox forse chiederebbe i world bond); 2) come ammoniva Henry Hazlitt (riprendendo la lezione di Bastiat), la ricetta in questione si concentra sugli effetti di breve periodo su una parte dell’economia, e non su quelli di medio lungo termine sull’intero sistema.

Ma guai a vendere i gioielli di famiglia! Posto che prima di vendere il Colosseo lo Stato italiano avrebbe una miriade di beni demaniali di nessun valore storico-artistico che potrebbero tranquillamente essere alienati (e si crede davvero che proporre di privatizzare il Colosseo sarebbe una bestemmia?), quello di considerare il patrimonio demaniale come garanzia di nuovi finanziamenti è un pretesto bello e buono. In realtà le valutazioni sulla sostenibilità del debito pubblico si basano sul gettito fiscale ben più che sul patrimonio. E con 2000 miliardi di debito e una pressione fiscale già asfissiante (che blocca la crescita dell’economia), non c’è da stupirsi che ci siano dubbi sulla sostenibilità del debito italiano.

Lo stesso paragone con le aziende non regge ed è fuorviante. Se lo Stato vendesse partecipazioni azionarie e immobili non si priverebbe di know how, così come non se ne priverebbe un’azienda che vendesse immobili e partecipazioni, per di più non strumentali.

Se poi, la politica fosse “costretta a fare un definitivo passo indietro” e ci fosse un po’ più di laissez faire, Fox dovrebbe spiegare come questo comporterebbe l’insorgere di monopoli e un deficit democratico. Non vedo quale sia la connessione tra democrazia e interventismo economico, né tra laissez faire e monopolio, dato che il laissez faire è fondamentale per una effettiva concorrenza, che altrimenti sarebbe solo un oligopolio gestito dal governo.

Potrà non piacere a Fox, ma dovrebbe essere ormai palese che l’interventismo ha fallito. Riproporlo su scala europea non è la soluzione, ma lo spostamento del problema.

 

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