In Anti & Politica, Esteri, Libertarismo, Varie

12sdi LUCA CELADA*

Clint entra nella stanza con l’andatura inconfondibile da Uomo Senza Nome, appena irrigidita dagli anni, gli occhi blu ghiac­cio addol­citi da un sor­riso all’angolo della bocca (più tardi l’occhiolino, impa­ga­bile, men­tre prende in mano una copia de Il Manifesto per farsi fotografare).

Sono pas­sati sessant’anni da quando, attore di tv pome­ri­diana, fu capace di reinventarsi come per­so­nag­gio ico­nico gra­zie all’incontro con Ser­gio Leone che ricorda tut­tora calorosamente. Rino­mato bastian con­tra­rio con una spic­cata aller­gia alle mode e i focus group usati dagli studios per son­dare il gra­di­mento del pub­blico, Eastwood è uno che la sua strada se l’è sem­pre fatta da sé.

Nel cinema e nella poli­tica. L’uomo che è stato Cal­la­ghan e sin­daco di Car­mel è stato spesso accu­sato di essere «di destra», sem­mai però ha espresso un populismo sincero che tut­ta­via non è quello becero e oscu­ran­ti­sta del Tea Party, piut­to­sto quello «radi­cale» dei seguaci ultra­li­be­ri­sti di Ron Paul, e più di tutto affine a quello atavicamente ame­ri­cano dei film dell’amico e men­tore Frank Capra.

Clint è un «con­ser­va­tore» capace di fare film con­tro la pena di morte (Fino a prova con­tra­ria) con­tro il razzismo (Gran Torino) e con­tro la guerra (Let­tere da Iwo Jima). Nell’ultimo Ame­ri­can Sni­per (uscito in Ita­lia il 1° Gen­naio) torna alla guerra e ai grandi rac­conti ame­ri­cani con un film feroce e com­pli­cato che farà discutere e, ancora di più, farà sicu­ra­mente anche incaz­zare parec­chia gente.

La sto­ria è quella di Chris Kyle, cec­chino dei Navy Seals, cam­pione di kills, a cui in quat­tro turni di ser­vi­zio in Iraq ven­gono attri­buiti 160 nemici uccisi accer­tati (255 «pro­ba­bili») che, data la defi­ni­zione assai ela­stica di «enemy com­ba­tants» nella guerra «asim­me­trica», com­pren­dono civili, donne e bam­bini.

Texano tutto d’un pezzo, red­neck e cow­boy da rodeo, dopo gli atten­tati all’ambasciata Usa in Kenya e Tan­za­nia, Kyle par­cheg­gia il pick-up d’ordinanza davanti all’ufficio di reclu­ta­mento e si arruola nei Navy Seals. Ma American Sni­per (lo ha recen­sito su que­ste pagine Giu­lia D’Agnolo Val­lan, ndr) è soprat­tuttto un film sull’ossessione e i suoi costi morali.

Incom­pa­ra­bile per la rap­pre­sen­ta­zione della sur­reale nor­ma­lità di una guerra «pendolare» che alterna gli orrori dell’occupazione alla mono­tona bana­lità dei turni a casa; una paradossale dis­so­cia­zione per i sol­dati e una comoda rimo­zione per un Paese che ne «sco­pre» il costo reale attra­verso i rap­porti par­la­men­tari sulla tortura.

In que­sto mondo il Callaghan/Achille di Clint torna dal fronte trau­ma­tiz­zato nel pro­fondo, non cono­scerà la catarsi del pen­ti­mento ma la pato­lo­gica frat­tura interiore dei reduci. Gra­zie anche alla splen­dida interpretazione di Brad­ley Coo­per, il film foto­grafa la sin­drome trau­ma­tica che deva­sta decine di migliaia di reduci e a cui, nelle guerra per­pe­tua, sono desti­nate gene­ra­zioni di vete­rans.

Siamo nel mondo mani­cheo dell’idolatria della ban­diera e della fatale attra­zione per le armi da fuoco che, dal Medio Oriente al com­mis­sa­riato di Fer­gu­son, è così inestricabile dalla mito­lo­gia nazionale.

LC: Per­chè l’attrae la guerra come soggetto?.

CE: Le sto­rie di guerra erano molto popo­lari quando ero ragazzo, sono cre­sciuto con l’immagine di Robert Taylor in Bataan (di Tay Gar­nett, ndr), e tutti gli altri film dell’epoca. Erano sto­rie memo­ra­bili. Il con­flitto è la base del dramma e la guerra è il con­flitto per antonomasia.

LC: E il suo rap­porto col patriottismo?.

CE: Quando è scop­piata la seconda Guerra mon­diale avevo undici anni. Nella mia vita ho assi­stito a molti cambiamenti di opi­nione riguardo al patriot­ti­smo. Durante la seconda Guerra non si discu­teva nem­meno: tutti erano patriot­tici, a favore della guerra «giu­sta» com­bat­tuta per assi­stere le nazioni euro­pee. Si andava al cinema a vedere i cine­gior­nali sul Paci­fico e l’invasione di Iwo Jima, tutte cose che mi sono ricor­dato quando ho fatto i film. Quindi pro­vengo da una gene­ra­zione in cui il patriot­ti­smo era un arti­colo di fede. Solo quat­tro anni dopo era­vamo di nuovo in azione in Corea. Ricordo di aver pen­sato che la situa­zione pre­sen­tava una strana iro­nia: ci ave­vano appena finito di dire che non ci sareb­bero state più guerre, e di colpo eccomi reclu­tato. Era il 1951 e ci chie­de­vamo cosa dia­volo ci stes­simo a fare lag­giù. Col Viet­nam poi se lo chiese anche un muc­chio di altra gente: per­ché continuavano a com­bat­tere? E quando sarebbe finita una volta per tutte?.

LC: Invece non è ancora finita.

CE: Già. Non sono mai stato d’accordo con la guerra in Iraq, e le ragioni erano sempre le stesse, che mi hanno spinto in pas­sato a essere con­tra­rio all’intervento in Corea e agli altri che sono seguiti. Noi che siamo cre­sciuti con la seconda Guerra abbiamo cono­sciuto la sof­fe­renza, e a un certo punto diventa ine­vi­ta­bile chie­dersi quale sia il fine di tutto questo.

LC: E quindi l’Iraq?.

CE: Ricordo che era­vamo sul set di Mystic River quando hanno deciso di riman­dare le truppe in Iraq per la seconda volta. All’epoca di Bush padre molti ame­ri­cani si erano schie­rati a favore dell’intervento mili­tare nel Golfo, ma in quel momento tanta gente era con­tra­ria. Sad­dam non era certo popo­lare qui in Ame­rica, ma se si devono pren­dere deci­sioni simili in base all’antipatia il rischio è di non fer­marsi più. Il mondo è pieno di antipatici.

LC: Oggi cosa pensa?.

CE: La prima Guerra mon­diale doveva met­tere fine a tutti i con­flitti, invece sappiamo come è andata. A un certo punto ti viene da chie­derti se l’umanità sia davvero capace di vivere in pace, una cosa che non sem­bra essere nel nostro Dna. Non sembra che la Sto­ria stia dalla parte della pace, non certo almeno a giu­di­care dalla propensione che abbiamo ulti­ma­mente di andare a espor­tare la demo­cra­zia in paesi che non ne vogliono sapere. È tra­gico che sia così, ma credo anche che quando fai un film sulla guerra impari qual­cosa su te stesso, cominci dav­vero a riflet­tere sulla guerra e in defi­ni­tiva sul ruolo che il tuo Paese ha nelle guerre.

LC: Kyle, il cec­chino del suo film, impara?.

CE: Per­lo­più sono altri per­so­naggi quelli che pon­gono inter­ro­ga­tivi sulla mora­lità della guerra, lui è costantemente nella posi­zione di giu­sti­fi­care il pro­prio ope­rato, e a furia di difen­derlo arriva al punto in cui non ne è più così certo. La scena in cui alla fine dice allo psi­chia­tra che è pronto ad affron­tare il Crea­tore senza rim­pianti mostra in realtà l’esatto contrario.

LC: E lei cosa ha impa­rato dalle sue esplo­ra­zioni della guerra?.

CE: Fare un film sulla bat­ta­glia di Iwo Jima e poi rivi­si­tarla dal punto di vista giapponese per me è stato molto inte­res­sante. All’epoca anche le truppe ame­ri­cane, e per­fino i gene­rali dei mari­nes, elo­gia­rono la difesa dei giap­po­nesi. Appro­fon­dire la loro realtà è stato molto sti­mo­lante. Penso che sia uno dei miei film più riusciti.

LC: Potrebbe imma­gi­nare un’operazione ana­loga sulla guerra in Iraq, rac­con­tarla dal punto di vista del nemico?.

CE: Non credo. Forse qual­che altro regi­sta in futuro. Intanto però dovrebbe finire. E poi tutto dipende dalla sto­ria, se c’è qual­cosa degli avver­sari che vale la pena esplorare, che è inte­res­sante, allora è una sto­ria che è bene raccontare.

LC: Ama le armi da fuoco?.

CE: Io? Credo che l’ultima volta che ho imbrac­ciato un fucile sia stato in quella scena di Gran Torino quando dico: «Get off my lawn!». Per for­tuna era cari­cato a salve, altri­menti c’era il rischio che acce­cassi qualcuno.

LC: Se incon­trasse sé stesso da gio­vane cosa si direbbe?.

CE: Non so. Quel ragazzo non era par­ti­co­lar­mente sve­glio. Forse gli direi di non per­dere tanto tempo e di darsi da fare.

* Articolo tratto da http://ilmanifesto.info/

Suggeriamo la visione di questo filmato nel quale Clint Eastwood parla di politica e spiega la filosofia libertaria:

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Showing 3 comments
  • Pedante

    Sorvolando i tanti punti di discordia (trattandosi di Il Manifesto non c’è da stupirsene) l’intervista mi è piaciuta, anche quella con la DeGeneris. Mi manca tuttavia il vecchio Callaghan, ma riconosco che l’America di allora é ormai morta e seppellita. Non credo che Morgan Freeman e Denzel Washington si possano definire libertari.

  • Pedante

    Neocon non solo sul fronte estero ma pure a casa, Rand Paul. Tant’è che Cruz potrebbe sfidarlo sull’amnistia nelle primarie.
    http://www.vdare.com/posts/ted-cruz-stakes-out-position-as-anti-amnesty-leader-but-to-what-end
    A meno che i vertici del Partito repubblicano non si allineino con la sua base (vedi il polverone Scalise) e comincino a rappresentare gli elettori bianchi di origine europea il Partito democratico diventerà il Partito rivoluzionario istituzionale (d’America).

  • LucaF.

    Ovviamente per oscurantista si riferisce al TP americano che propone issue non necessariamente libertarie.
    Il riferimento al TP americano come antagonismo al libertarianism di Ron Paul può qua in Italia sembrare una forzatura ideologica persino capziosa vista la fonte, tuttavia bisogna tener presente che benché i primi TP siano stati promossi a sostegno della candidatura del Dottore nel 2007, il TP è divenuto sostanzialmente il grassroot del GOP mainstream.
    Già nel 2010 col TP sono stati eletti personaggi come Cruz e Rubio che certamente non hanno una visione anti-interventista ma neocon.
    Lo stesso Rand Paul in politica estera ha posizioni a mio avviso moooolto discutibili ed è più un reaganiano che come il padre.
    Sicché non stupisce che l’editoriale de Il Manifesto ponga il TP come analogia della destra neocon più militarista e nemesi rispetto ai libertari (peraltro in America i libertari del LP non si identificano con il TP anche per questo motivo oltreché per via di altre issue socialconservatrici che li dividono).

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