In Saggi

DI GIAN PIERO DE BELLIS

Il mancato sviluppo dell’idea

La spinta che motivava i liberali classici era, come indicato precedentemente, il superamento dei monopoli (di potere, di ricchezza e di religione) e l’affermazione dell’individuo autonomo e tollerante. Nella sfera della produzione e del commercio questa aspirazione si condensò nella famosa espressione laissez-faire laissez-passer.

L’espansione della libertà che caratterizzò, soprattutto l’Inghilterra tra il 18° e il 19° secolo, rese possibile un incremento massiccio dei mezzi di produzione (capitale) che fu successivamente qualificato con il nome di Rivoluzione Industriale.

Sul Continente, questa idea che il laissez-faire laissez-passer fosse la chiave della prosperità economica e potesse essere anche la chiave del benessere sociale, venne ripresa da un pensatore liberale di nome Paul Emile de Puydt (1810-1891). Quello che egli propose fu di introdurre la libera competizione tra governi su uno stesso territorio, in maniera simile alla concorrenza tra industrie insediate nello stesso paese o a confessioni religiose che vivono l’una accanto all’altra e attraggono fedeli sulla base del richiamo del loro messaggio e dell’approvazione per le loro azioni. L’attuazione di questa proposta, secondo de Puydt, avrebbe messo fine ai litigi politici e agli sprechi economici delle risorse pubbliche e avrebbe permesso, a coloro che erano in grado di offrire i migliori servizi sociali, di emergere e di operare. Almeno fino a quando essi fossero stati capaci di offrire servizi richiesti da un pubblico soddisfatto di clienti.

La novità radicale contenuta in questa posizione presentata sotto il nome di Panarchia (1860), può essere meglio percepita se confrontata con alcune idee di base del liberalismo classico, e cioè:

A) L’idea di contratti personali al posto di un contratto sociale. Locke (sulla scia di Thomas Hobbes e seguito da Jean-Jacques Rousseau) individua l’origine dei governi nella stipulazione di un contratto sociale che lega i governanti e i governati a obblighi reciproci. Il diverso accento posto su obblighi e limiti (con Hobbes maggiormente dalla parte del governante e Locke e Rousseau maggiormente dalla parte dei governati) distingue la visione assolutista da quella liberale del potere. Ad ogni modo, è solo quando il contratto sociale è sostituito da accordi sottoscritti personalmente, che noi effettuiamo un salto di qualità verso una libertà effettiva e sostanziale per l’individuo. Infatti, con il contratto sociale l’individuo si trova a obbedire alla maggioranza e a seguire le convenzioni del passato; invece, con il contratto personale l’individuo esprime le sue scelte sulla base delle sue aspirazioni e necessità attuali e della loro evoluzione.

B) L’idea di vari governi in concorrenza al posto di un unico governo composto da parti separate che si bilanciano. La nozione, espressa da Montesquieu e ripresa dai pensatori liberali classici, che la separazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) rappresenta la soluzione per garantire a tutti la libertà dall’oppressione politica, si è rivelata o un mito illusorio o un pasticcio immane. Per quanto riguarda il mito illusorio, la realtà corrente è che un ramo del potere statale, di solito, prevale sugli altri; per quanto concerne il pasticcio immane, avviene spesso che i vari poteri si combattono e si bloccano a vicenda e il risultato è una paralisi totale. Molto più efficace appare la proposta di mettere i governi (e i servizi da essi forniti) in competizione tra di loro e lasciare che le persone decidano quale governo essi vogliono finanziare e quali servizi vogliono utilizzare. Se i monopoli sono un dato negativo nella sfera economica, secondo la concezione liberale, sarebbe un fatto assolutamente straordinario se essi rappresentassero qualcosa di positivo nella sfera politica. Questo è il messaggio che de Puydt voleva far passare sulla base di una comprensione chiara e coerente dei migliori principi del liberalismo. Il cammino verso la proposta avanzata da de Puydt era stato preparato da un famoso economista liberale, Gustave de Molinari (1819-1912), per molti anni editore del Journal des Économistes. Nel 1849 egli scrisse un importante saggio, De la production de la sécurité, nel quale sostenne l’introduzione di una misura che rappresenta la condizione necessaria per l’attuazione della proposta di governi in competizione, e cioè:

C) L’idea di agenzie di sicurezza in concorrenza tra di loro al posto del monopolio statale della polizia. La visione dello stato come di un guardiano notturno (a night watchman) era stata avanzata, come una idea ridicola, in un discorso tenuto a Berlino nel 1862 da Ferdinand Lassalle, un socialista statalista che voleva che lo stato fosse l’entità suprema nella vita sociale ed economica delle masse. L’espressione era poi stata ripresa, con connotati positivi, dai liberali che intendevano confinare il ruolo dello stato a quello di essere, unicamente, il fornitore esclusivo di sicurezza nell’ambito di un territorio specifico (lo stato nazionale territoriale). La fallacia insita in questa posizione consiste nel fatto che, storicamente, nessuna entità che ha goduto del monopolio della violenza ha limitato la sua attività al semplice ruolo di sopprimere atti di aggressione e di mantenere la pace e l’ordine.

È un dato di fatto, confermato da molti avvenimenti storici, che coloro che dispongono del monopolio territoriale della violenza sono posti o si trovano in una condizione favorevole e indispensabile per:

– Iniziare la violenza (contro agenti esterni al fine di ottenere guadagni territoriali).

– Imporre il controllo (sulle minoranze e sugli individui e gruppi non conformisti).

– Estrarre le risorse (da tutti i soggetti che abitano in quel territorio).

La svolta degli avvenimenti in direzione di uno stato invasivo, anche quando le idee liberali sembravano essere in ascesa, è stata molto bene documentata e deprecata da scrittori quali Frédéric Bastiat, Alexis de Tocqueville e Lord Acton (1834-1902).

Bastiat ha condotto, soprattutto verso la fine della sua breve vita, una lotta contro miti e illusioni, quali, ad esempio, il protezionismo come strumento per accrescere la ricchezza di una nazione, e lo stato come padre benevolo che provvede a tutto. Per distruggere (purtroppo senza successo) qualsiasi illusione che stava crescendo intorno allo stato, Bastiat produsse quella che è una delle migliori definizioni di stato: L’état, c’est la grande fiction à travers la quelle tout le monde s’efforce de vivre aux dépens de tout le monde. (l’État, 1848)

Tocqueville espresse (1835) le sue inquietudini, reiterate successivamente da John Stuart Mill (1859), su una possibile trasformazione della democrazia nella “tirannia della maggioranza”, in tutti i casi in cui la sfera dell’individuo diventava sempre più ristretta.

Lord Acton chiarì, meglio di qualsiasi altro, che “Il potere tende a corrompere e che il potere assoluto corrompe in maniera assoluta” e che “Non vi è peggiore eresia di quella che una carica pubblica santifica colui che la esercita”. (Lettera a Mandell Creighton, 5 Aprile 1887). I suoi avvertimenti non hanno ricevuto l’attenzione che meritavano, forse perché lo stato assoluto era qualcosa del passato e ora lo stato “liberale” era capace di presentarsi sotto apparenze molto più attraenti ma anche molto più ingannevoli.

Bastiat chiamò questo nuovo atteggiamento dello stato “il dispotismo filantropico” (La Loi, 1850) ma non molti condivisero le sue critiche. Di certo non molti liberali che, soprattutto in Inghilterra, stavano deviando il liberalismo verso un nuovo cammino in cui la società, rappresentata dallo stato, avrebbe ricevuto e assunto un ruolo notevolmente più grande.

Lo sviamento reale dell’idea

L’esponente di maggior rilievo del pensiero liberale in Inghilterra durante il 19° secolo fu John Stuart Mill. Nei suoi scritti, specialmente On Liberty (1859), troviamo alcune delle migliori enunciazioni dei principi liberali, condensati ad esempio nell’affermazione: “La sola libertà che merita tale nome è il perseguire il proprio bene a modo proprio, e fin tanto che non cerchiamo di privare altri di quanto spetta loro o blocchiamo i loro sforzi per ottenerlo.” (Mill, 1859)

Sulla base di questo principio ne consegue che “il solo scopo per il quale il potere può essere esercitato di diritto sopra qualsiasi membro di una comunità civilizzata contro la sua volontà, è di prevenire un danno ad altri. Il procurare a lui un bene, materiale o morale, non costituisce un motivo sufficiente.” (Mill, 1859)

Tuttavia, accanto a queste affermazioni molto chiare a favore della libertà personale e dell’autonomia individuale, troviamo in Mill altre formulazioni che possono fare spazio ad un intervento dello stato molto più esteso al fine di promuovere la civiltà (ad esempio in regioni arretrate della terra) o migliori condizioni per l’individuo (ad esempio per quanto riguarda strati sociali arretrati).

Nel suo Representative Government (1861) Mill dichiara che “le funzioni proprie di un governo non sono un qualcosa di fisso, ma di variabile a seconda della situazione della società stessa, con interventi governativi più estesi in una situazione arretrata rispetto a quanto avviene in una situazione avanzata.” (Mill, 1861) Questo punto di vista apre la strada all’intervento statale in tutti i casi in cui un provvedimento statale può essere presentato come capace di migliorare le condizioni sociali e porre fine ad una situazione miserevole.

È stato in questo modo che il liberalismo in Inghilterra è diventato sempre più intriso di tendenze filantropiche che non erano intrinsecamente riprovevoli se non avessero condotto: (a) all’interno, al paternalismo statale e all’invasione da parte dello stato di tutti i settori di fornitura di servizi sociali; e (b) all’esterno, alla accettazione attiva di un imperialismo presentato come benefico, per mezzo di uno stato “liberale” intento in una missione di civilizzazione sulla scena mondiale.

Nella seconda metà del 19° secolo il Liberalismo fu quindi deviato verso un approccio interventista dello stato grazie ad un gruppo di studiosi basati a Oxford e che erano attratti dalla filosofia di Hegel. Un esponente di spicco del gruppo fu il filosofo liberale Thomas H. Green (1836-1882) che, attraverso i suoi scritti e il suo impegno politico (era consigliere comunale al Municipio di Oxford) espresse ciò che diverrà noto come liberalismo sociale

Altri esponenti del liberalismo sociale furono Bernard Bosanquet (1842-1923), Leonard T. Hobhouse (1864-1929) e John H. Hobson (1858-1940).

L’idea di base di questi pensatori era che, in presenza di profonde disuguaglianze e di un lento progresso verso lo sviluppo personale, il compito del liberalismo era quello di stimolare la società nel suo insieme a intervenire, attraverso le sue istituzioni democratiche, al fine di promuovere misure che avrebbero facilitato la crescita materiale e morale degli individui. A tal fine era necessario passare da una idea negativa ad una idea positiva della libertà, e cioè dall’astenersi e non intervenire al prendere parte e favorire migliori condizioni sociali.

Va detto al riguardo che, nell’Inghilterra di allora e anche altrove, vi erano parecchie ragioni, per chiunque fosse animato da buone intenzioni e con un sentimento di giustizia personale e sociale, per intervenire al fine di correggere torti passati e presenti, commessi dai ceti dominanti con la protezione del potere statale.

Nel passato i ricchi possidenti di campagna si erano appropriati (attraverso i vari Atti di Recinzione) di vaste estensioni di terra, con l’approvazione e la benedizione del Parlamento che essi dominavano. Durante la Rivoluzione Industriale gli interessi dei ceti industriali erano stati altamente protetti dallo stato attraverso la proibizione di formare associazioni di lavoratori (sindacati) per lottare per migliori condizioni di lavoro. E questo fu fatto spesso in nome di principi liberali di concorrenza che gli industriali potevano benissimo mettere da parte attraverso accordi taciti.

Adam Smith era del tutto consapevole di questa situazione quando scrisse: “Si dice che raramente sentiamo parlare di accordi tra padroni di fabbrica, mentre di frequente si ha sentore di accordi tra lavoratori. Ma chiunque pensi, sulla base di ciò, che i padroni raramente si accordano tra di loro, fa mostra di ignoranza del mondo e di questa realtà in particolare. I padroni sono sempre e dappertutto in una sorta di intesa tacita ma costante e uniforme, al fine di non innalzare i salari al di sopra del livello attuale.”

Al tempo stesso, quando i lavoratori si mettono d’accordo, “i padroni … non cessano mai di strepitare esigendo l’intervento del magistrato civile e l’attuazione rigorosa di quelle leggi che sono state emanate con estrema severità contro le unioni di servi, lavoratori e operai specializzati.” (The Wealth of Nations, 1776, Libro 1, Capitolo 8)

Per cui vi erano giustificazioni per coloro che erano a favore dell’abbandono di un liberalismo che condannava qualsiasi intervento, da parte di chicchessia, anche di movimenti sociali, come un’interferenza indebita nello stato naturale delle cose. Le ragioni di un intervento erano ancora più sostenibili soprattutto se si considera che il presunto stato naturale delle cose nel presente non era affatto naturale ma il risultato di interventi politici nel passato nei confronti dei quali, si sosteneva, nuovi provvedimenti politici potevano adesso porre rimedio.

Ad ogni modo, un gruppo vigoroso di nuovi pensatori e attivisti liberali avrebbe potuto identificare tutti gli ostacoli, posti in passato da parte di qualsiasi potere (lo stato, i proprietari terrieri, gli industriali, i banchieri, ecc.), che ancora impedivano il libero sviluppo degli individui, e intervenire al fine di eliminarli del tutto. Ad esempio, in materia di tassazione, di politiche espansionistiche dello stato, di libertà da convenzioni culturali imposte. Sfortunatamente, invece di rafforzare l’individuo liberandolo da qualsiasi costrizione sociale ancora esistente, i liberali della scuola di Oxford si pronunciarono per un ampliamento dei poteri dello stato sperando, in tal modo, di aiutare l’individuo a diventare libero.

In altre parole, i liberali sociali furono responsabili, come i socialisti statalisti, nell’installare lo stato su di un piedistallo o come un deus ex machina che scende dall’alto per risolvere la maggior parte se non tutti i problemi sociali.

Questo è del tutto evidente negli scritti di Thomas H. Green nei quali l’accento posto sugli individui è sempre temperato e assai spesso soffocato dall’accento posto sul potere provvidenziale dello stato. Un esempio di questa ambivalenza è contenuto in affermazioni quali, “non possiamo parlare in maniera significativa di libertà se non in riferimento alla singola persona”, a cui fa seguito l’osservazione che “la realizzazione della libertà all’interno dello stato può significare soltanto il conseguimento della libertà da parte degli individui attraverso le influenze che lo stato (in senso lato) fornisce.” (Lectures on the Principles of Political Obligation, 1882)

Per quanto riguarda la cancellazione dell’individuo e l’attribuzione allo stato delle basi per l’esistenza umana, l’affermazione seguente è, implicitamente, abbastanza indicativa: “Chiedersi perché devo sottomettermi al potere dello stato, è come chiedersi perché devo accettare che la mia vita sia regolata da quel complesso di istituzioni senza le quali, letteralmente, io non avrei una vita che potrei chiamare mia, né sarei capace di trovare una giustificazione per quello che sono chiamato a fare.” (Thomas H. Green, 1882)

Da questa prospettiva, non è sorprendente che questo autore “liberale” abbia espresso la convinzione che “l’educazione dovrebbe essere resa obbligatoria dallo stato” e che “la libertà di contratto dovrebbe con tutta probabilità essere maggiormente ristretta verso talune direzioni di quanto non lo sia al presente.” (Thomas H. Green, 1882) Questo perché “la nostra legislazione … con riferimento al lavoro, all’educazione e alla salute, mettendo in atto, come dovuto, una serie di interventi che interferiscono con la libertà di contratto, è giustificata sulla base del fatto che è compito dello stato … preservare le condizioni senza le quali un libero esercizio delle facoltà umane è impossibile.” (Liberal Legislation and Freedom of Contract, 1861). In pratica scopriamo attraverso le parole di un pensatore “liberale” che, senza lo stato, non vi sono né istruzione, né contratti, né libertà di alcun genere.

Una posizione ancora più accentuata a favore dello Stato Liberale si trova in Bernard Bosanquet per il quale lo stato costituisce la più alta manifestazione e attuazione della libertà nella società. In The Philosophical Theory of the State (1899), egli si fece promotore dell’abbandono dei cardini del liberalismo, come ad esempio l’unicità dell’individuo, al fine di sommergere ogni essere umano nel mare magnum della volontà generale e di effettuare “un passaggio dall’io privato alla grande comunione del reale.” (1899). Bosanquet faceva riferimento, approvandola, all’idea di Rousseau dell’essere “forzati a essere liberi”. E questa costrizione “liberale” doveva chiaramente essere l’opera di una istituzione superiore, e cioè lo stato, dal momento che Bosanquet considerava “lo stato come l’organo e la condizione principali per una più piena libertà.” (1899)

L’idea di Bosanquer della libertà personale era quella di un essere umano indirizzato, disciplinato e animato dalla suprema entità etica: lo stato. Per Bosanquet “Lo Stato è il volano della nostra vita.” “Lo Stato è … la mente dell’individuo su scala gigantesca.” (1899)

Con Bosanquet la stagione del liberalismo iniziata con Locke è definitivamente tramontata, almeno dal punto di vista della teoria. Siamo ricondotti di nuovo all’assolutismo del Leviatano di Hobbes sotto le sembianze apparentemente più accettabili della Volontà Generale di Rousseau. Lo Stato è l’individuo o, nelle parole di Bosanquet, abbiamo “l’identificazione dello Stato con la Volontà Reale dell’Individuo.” (1899)

Che il nuovo credo “liberale” fosse totalmente a favore del dominio dello stato non può essere più messo in dubbio quando leggiamo che “lo Stato, in quanto il raggruppamento maggiore i cui membri sono concretamente uniti da una comune esperienza, rappresenta necessariamente la sola comunità che ha un potere assoluto di assicurare, con la forza, se necessario, una regolazione sufficientemente adeguata delle pretese di tutti gli altri gruppi in modo da rendere la vita possibile.” (1899)

In sostanza, i Liberali del gruppo di Oxford sotterrarono il Liberalismo classico presentando e diffondendo con successo idee e aspettative fallaci quali:

– la confusione tra stato e società (“Con il termine Stato, quindi, noi indichiamo la Società come una unità, riconosciuta nel suo esercizio legittimo del controllo sui suoi membri attraverso il potere fisico assoluto.” – Bosanquet, 1899);

– l’illusione che l’intervento statale fosse portatore di benessere personale (“Lo Stato, quindi, esiste per promuovere la buona vita.” – Bosanquet, 1899).

In presenza di simili sviamenti rispetto alla concezione originaria, è appropriato affermare che, alla fine del 19° secolo, il liberalismo come idea era praticamente morto. Gli eventi storici che avranno luogo nei decenni successivi lo confermeranno.

FINE PARTE 5/6 – CONTINUA

INDICE – I 10 CAPITOLI

Gli antecedenti dell’idea

La formulazione dell’idea

L’attuazione dell’idea

I limiti pratici dell’idea

Il mancato sviluppo dell’idea

Lo sviamento reale dell’idea

La svolta deplorevole dell’idea

Il capovolgimento totale dell’idea

I tentativi di salvataggio dell’idea

Oltre il liberalismo e l’antiliberalismo

QUI LA PRIMA PARTE: https://www.movimentolibertario.com/2011/10/26/liberalismo-ed-antiliberalismo-parte-1/

QUI LA SECONDA PARTE: https://www.movimentolibertario.com/2011/10/27/liberalismo-ed-antiliberalismo-parte-2/

 

 

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