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parlamentoDI MATTEO CORSINI

“Il dibattito sulla fine del bicameralismo perfetto così come l’abbiamo conosciuto ha recentemente affrontato un tema legato alle riforme istituzionali, quello del “Senato delle competenze”: una camera ancora rappresentativa, non snaturata del tutto nelle competenze, ma modificata alla radice in quanto alla composizione, in grado di intercettare le personalità più autorevoli nel mondo dell’istruzione, della ricerca, dell’università, della cultura… Il Senato sarebbe, quindi, un organo altamente specializzato, espressione autorevole di scienza e cultura, una sorta di “camera dei saperi”” (M. C. Carrozza)

Per un libertario che ritiene troppo grande anche lo Stato minimo, le disquisizioni sulla fine del bicameralismo perfetto sono paragonabili alle riflessioni sulla rinuncia di un caffè al giorno da parte di una persona che pesa 200 chili e dice di voler dimagrire. Se il proposito è davvero quello di dimagrire e, magari, spendere meno, si tratta di riflessioni pressoché inutili. Il ministro dell’Instruzione, Maria Chiara Carrozza, si è inserita nel dibattito, commentando la proposta lanciata qualche tempo fa dall’inserto culturale della domenica del Sole 24 Ore di trasformare il Senato in una sorta di “camera dei saperi”. Un’idea non completamente originale, già discussa ai tempi dell’assemblea costituente, come ricorda la stessa Carrozza, la quale, manco a dirlo, è favorevole a una svolta “culturalista” per il Senato.

In sostanza si tratterebbe di riservare l’elezione a senatore alle “personalità più autorevoli nel mondo dell’istruzione, della ricerca, dell’università, della cultura”; un’ipotesi che probabilmente farebbe felice Platone e tutti coloro che, nel corso dei secoli, hanno sposato l’idea che il potere debba appartenere a delle elites. Che gran parte dei cosiddetti intellettuali cerchi di ottenere di che vivere (se possibile, agiatamente) utilizzando quelli che Oppenheimer definiva “mezzi politici” anziché offrendo sul mercato (“mezzi economici”) i propri saperi non deve stupire; infatti è una costante della storia. Gli intellettuali (definiamoli così) sono sempre stati funzionali al rafforzamento dello Stato, così come uno Stato forte e in espansione ha rappresentato un ottimo datore di lavoro per gli intellettuali. Al contrario, gli intellettuali “non di corte” sono sempre stati una netta minoranza, e generalmente hanno incontrato parecchi ostacoli sulla loro strada, avendo vita tutt’altro che facile, per esempio, nel mondo accademico. Ora, io ritengo che una maggioranza (o una minoranza qualificata) non debba avere il diritto di imporre, mediante la legislazione, il proprio volere a tutti quanti, né credo che gli eletti abbiano conoscenze e competenze, singolarmente o collettivamente, superiori a quelle di milioni di cittadini. E fa poca differenza se gli eletti sono le “personalità più autorevoli nel mondo dell’istruzione, della ricerca, dell’università, della cultura” oppure no. Alla Camera e al Senato sono già oggi presenti diverse persone che provengono da quegli ambiti, ma il loro comportamento poco si distingue da quello degli altri parlamentari. Forse usano meglio il congiuntivo. Non sempre, peraltro.

Per di più resterebbe da risolvere il problema di come eleggere queste persone. Se si ritiene che i cittadini siano per lo più “incompetenti”, come possono costoro selezionare i “competenti”? Considerando che la scelta di votare un partito/coalizione piuttosto che un altro/a dipende, almeno in teoria, da quanto un elettore ritiene che quel partito/coalizione possa tutelare al meglio i propri interessi (spesso identificati con il “bene comune”), come può questo conciliarsi con la necessità di eleggere una “camera dei saperi”? Io credo che l’esperienza della nomina dei senatori a vita, peraltro scelti dal presidente della Repubblica (quello che viene pomposamente definito “rappresentante dell’unità nazionale” e si dice essere super partes), dimostri come la scelta tenda a cadere su persone indubbiamente competenti, ma mai con simpatie politiche opposte a quelle di chi decide le nomine. Ritengo, quindi, che le idee politiche dei candidati finirebbero in ogni caso per prevalere sui loro “saperi”. Molto meglio, quindi, evitare. La miglior fine del bicameralismo è rappresentata dall’abolizione del Senato, non da una sua trasformazione. E già resterebbero in troppi anche alla sola Camera dei deputati. Sapienti o meno.

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Showing 5 comments
  • Rorschach

    In questo articolo c´é una tesi molto interessante che secondo me vale la pena discutere. Se i cittadini sono incompetenti, come possono eleggere persone competenti che li rappresentino? Ora, uno studente di dottorato onesto e non fanfarone raggiunge la conclusione del proprio corso di studi con la consapevolezza di essere estremamente ignorante sul proprio argomento. Pensare che alcune persone prive di qualunque conoscenza basilare su un tema qualsiasi possano decidere della vita di altri di certo potrebbe rappresentare un argomento molto forte contro la democrazia. D´altra parte, questo stesso argomento potrebbe essere utilizzato per dire che il popolo bue non ha alcuna autonomia decisionale e che dunque é necessario che alcuni tecnocrati pensino per lui. Secondo voi esiste una via di uscita?

  • Marco Tizzi

    Ci vedrei bene un ristorante al posto del senato. O una discoteca. Un bordello.
    Qualcosa di utile, insomma.

    • lorenzo s.

      L’importante è che lo Stato venda il palazzo.

  • lorenzo s.

    Andrà a finire che avremo un senato pieno di persone come Mario Monti e Giuliano Amato, perché è da questi serial-taxer (tassatori seriali) che sono composte le cosiddette “camere dei saperi”.

  • CARLO BUTTI

    Quando leggo la parola “saperi”, al plurale mi si aggriccia la pelle. Basterebbe questo, oltre alle ottime ragioni esposte da Corsini con la consueta chiarezza, per farmi aborrire l’idea della signora ministra e del giornalone di Confindustria. Il sapere è uno solo, al singolare; le sue articolazioni si chiamano discipline, e a livello scolastico materie. I vecchi dizionari ( il rimpianto Palazzi) dicevano che “sapere” è nome solo singolare; purtroppo in un’epoca sciattona come la nostra gli è stato appioppato un plurale risibile, che non gli compete e ne sminuisce la nobiltà.

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