In Ambientalismo, Anti & Politica, Economia, Libertarismo

DI DAVIDE LEONARDI

Con questo mio intervento desidero esporre, a titolo personale, le motivazioni che mi hanno indotto a sottoscrivere l’appello di Diritto e Mercato e nel contempo rispondere a Luca Fusari sull’argomento.

Vi sono, nella proposta di Fabio Nicosia, due questioni distinte: la prima è la contabilizzazione dei beni demaniali, la seconda quella del debito pubblico.

Personalmente anch’io nutro delle perplessità circa la possibilità di diminuire il debito mediante l’iscrizione all’attivo delle risorse naturali e dei beni storico-artistici del paese. Confesso di non sapere nulla sui principi contabili che regolano il bilancio di uno Stato, ma immagino che non esista bilancio al mondo che non sia tenuto al vincolo della doppia partita, per cui a un aumento delle attività dovrebbe corrispondere un equivalente aumento del debito a meno di considerare i beni come virtualmente già iscritti in bilancio a valore nullo e, trattando l’operazione alla stregua di una rivalutazione, generare una componente positiva di reddito. In alternativa la contropartita al valore demaniale potrebbe essere un fondo o riserva a copertura dell’emissione di nuova moneta, come in altra sede ha suggerito lo stesso Fabio.

Detto questo, la contabilizzazione dei beni demaniali è una proposta la cui portata va al di là del problema del debito pubblico. Come ha correttamente sottolineato Luca Fusari, sia pur in chiave polemica, “sembra quasi che l’unico scopo che ci si prefigge sia la mera enumerazione di valore”. Bene, desidero rassicurare – o meglio, preoccupare – Luca: per quanto mi riguarda è esattamente quello lo scopo!

Le sue obiezioni a questa posizione sono sia nel merito che nella forma.

Per quanto riguarda la forma, non è mia intenzione addentrarmi nei meandri della contabilità pubblica, che – ripeto – non conosco, ma certamente sbaglia Luca Fusari quando afferma che la contabilizzazione dei beni immobili per le aziende private è un mero obbligo di legge finalizzato all’estorsione fiscale. Una cosa è l’obbligo di certificare il proprio reddito che lo Stato impone alle aziende, anche per i motivi indicati da Fusari; un’altra sono i principi contabili, che hanno invece lo scopo di determinare correttamente il reddito di un’azienda, indipendentemente dalle finalità per cui tale reddito debba essere reso noto. Prova ne è il fatto che spesso i principi contabili sono in conflitto con le norme tributarie.

Forse vale la pena ricordare che i principi contabili non sono opera del legislatore e che hanno piuttosto natura scientifica, di conoscenza e, in quanto tali, portata universale. Non si capisce, dunque, perché tali principi non possano e non debbano essere applicati a qualsiasi persona giuridica, amministrazione pubblica inclusa. Che lo Stato non sia una S.p.A. è una considerazione ovvia; meno ovvio è che un libertario arrivi a difendere tale anomalia, quasi temendo che sottoporre un ente pubblico alla stessa disciplina di quello privato sia un modo per giustificarne la sua esistenza e non, come è, un passo verso la sua destatalizzazione.

Molto più importante e delicato è il merito della questione, che tocca – me ne rendo conto – principi “sacri” per un rothbardiano ortodosso. Mi riferisco in particolare all’idea che le risorse naturali (i beni storici e culturali sono assimilabili alle risorse naturali in questo senso) non hanno valore se non vengono trasformate in mezzo di produzione tramite lavoro. Questa credenza porta Fusari ad affermare che beni non inerenti alla produzione non andrebbero iscritti nemmeno nel bilancio di una società privata. In verità la distinzione tra beni inerenti e non inerenti la produzione – questa sì – è determinata esclusivamente da esigenze fiscali, mentre sul piano della contabilità pura qualsiasi bene immobile deve essere contabilizzato, indipendentemente dal fatto che esso sia o meno fonte di reddito.

A maggior ragione le risorse naturali, così come i beni storici, sono un patrimonio al quale noi tutti diamo un valore, indipendentemente dal loro potenziale sfruttamento commerciale. Viceversa il loro sfruttamento, pur essendo fonte di reddito per qualcuno, è un danno per tutti coloro i quali attribuiscono un valore intrinseco a tali risorse proprio nella misura in cui non vengono alterate o rimangono comunque disponibili alla libera fruizione. La privatizzazione in senso stretto, ma anche la concessione a privati, di beni pubblici (sì avete letto bene, “pubblici”, parola con la quale intendo in questo contesto “di tutti” e non “dello Stato”) comporta dei costi per i non proprietari/concessionari al netto dei quali andrebbero calcolati i benefici sociali che ne derivano. Contabilizzare, ma prima ancora valutare, tali risorse significa fare un passo nella direzione dell’affermazione di questo principio, riconoscendo allo Stato la funzione legittima, benché illegittimo sia il suo monopolio, di tutore degli interessi dei proprietari “naturali” del demanio, che sono i cittadini tutti.

Naturalmente queste sono considerazioni che non possono albergare nel pensiero di chi vede nella terra una res nullius anziché una res omnium, e di chi crede che il diritto di acquisizione della stessa attraverso il suo sfruttamento sia un diritto naturale. Premesso che, in quanto scettico e antidogmatico, non credo nell’esistenza di un diritto naturale, non c’è bisogno di essere un pericoloso relativista per rivendicare il pari diritto di tutti alla terra se perfino la Chiesa Cattolica, nella Rerum Novarum, afferma tale principio e lo difende, peraltro, proprio perchè “naturale”, a conferma di quanto poco oggettivi siano i presunti diritti naturali.

La libertà – che non è partecipazione, bensì massimizzazione delle concrete possibilità di farsi i cazzi propri – si fonda su un delicato equilibrio tra diritto di escludere e libertà di circolazione (intesa in senso lato come possibilità di godere direttamente e indirettamente di ciò che la natura e non l’uomo ha creato). Il primo può essere acquisito solo a spese di quest’ultima e non reputo funzionale a tale equilibrio un istituto della proprietà privata che non tenga conto di questo conflitto.

Il diritto di escludere è la vera funzione della proprietà privata. E’ il diritto di escludere che ci dà la possibilità di godere dei frutti del nostro lavoro (così come di oziare indisturbati all’interno della nostra proprietà se lo preferiamo) e non viceversa. Perché nascondersi dietro a un dito? Il diritto di escludere non ha bisogno di giustificazioni morali per un libertario, ma solo di un giusto prezzo e il giusto prezzo è definito in termini di libertà di circolazione che esso sottrae agli escludendi.

Immagino che le mie parole rendano ancora più “sinistro” l’appello di Diritto e Mercato a Luca Fusari, il quale sentirà più forte la puzza di patrimoniale. Ebbene, anche su questo non voglio contraddirlo più di tanto: non sarei affatto contrario allo spostamento dell’imponibile fiscale dal reddito al patrimonio, perché vedo nelle tasse sul patrimonio qualcosa di più vicino a un indennizzo per un valore sottratto alla comunità, che a una tassa. Naturalmente una patrimoniale una tantum in aggiunta alle imposte sul reddito è un’altra cosa, e il mio auspicio riguarda solo i titoli di proprietà relativi a risorse naturali, che vorrei anche più simili a un diritto di superficie o di suolo, che non a titoli di proprietà veri e propri.

Credo di averne scritte abbastanza per farmi dare del “socialista”. Dopo un’infanzia da liberale classico, un’adolescenza da radicale e una post adolescenza da anarco-capitalista sono arrivato a una maturità (?) geolibertaria abituato a ricevere epiteti di qualsiasi tipo e la cosa non mi preoccupa. Mi preoccupa invece che i liberali, soprattutto se libertari, lascino ai no-global e agli amici di Chavez qualsiasi posizione sulle risorse naturali che non sia la privatizzazione delle balene (a proposito, un caro saluto a Guglielmo). Credo che la ingiusta distribuzione delle risorse naturali sia la vera patologia sul quale si sviluppa il sintomo, che è lo Stato, e che senza un suo ripristino non cadranno mai le resistenze sistemiche al libero mercato, che in queste condizioni non è in grado di svolgere correttamente le sue fisiologiche funzioni di regolazione omeostatica.

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