In Anti & Politica, Primo Piano

DI CARLO PUCA*

«Umberto Bossi è come Karol Wojtyla nel suo ultimo quinquennio da Santo padre: tutti i cardinali lo adoravano e lo rispettavano, poi però ognuno di loro andava per la sua strada. Così facciamo pure noi: lui già beato; noi, più modestamente terreni, a farci la guerra per prepararci alla sua successione». Il paragone dell’anonimo «arcivescovo» leghista, autorevole membro di governo, non è per nulla blasfemo: in un certo senso il Senatùr sta alla Lega nord come il pontefice sta alla Chiesa cattolica. Solo che il suddetto anonimo è impreciso: mentre il Papa fa base a Roma, in Vaticano, l’altro, il ministro delle Riforme, ha un nuovo ufficio in Brianza. E dove l’ha aperto? Nella Villa Reale di Monza. Appunto: in quanto re.

I sovrani sono fatti così, quando decidono una cosa, pretendono che la si faccia. Lui, Bossi, voleva gli ufficietti ministeriali al Nord e glieli hanno dati, inaugurati il 23 luglio. Mancava soltanto la banda musicale. Ma nessuno degli «aristocratici» leghisti e paraleghisti lo ha opportunamente contraddetto, da Luca Zaia a Francesco Speroni, a Giulio Tremonti, a Marco Reguzzoni (e chi più ne ha più ne metta). Per carità, sono tutti formalmente obbedienti. Tutti, però, ufficiosamente consapevoli che Bossi è appannato. E non dalla malattia, che pure incide sul fisico, bensì dalla sua disabitudine a risolvere problemi, lui che mai ne ha avuti come ora.

La patologia più grave riguarda infatti la sua creatura, il Carroccio. È il gigantismo la malattia senile del leghismo: poltrone e prebende che hanno rovinato il sogno. Il partito ha più correnti che idee, correnti mutevoli di opinioni e alleanze. Per esempio: un giorno i due Roberto, Calderoli e Maroni, fanno intesa, l’altro no, e si dividono, mentre Bossi annuncia strategie diverse a seconda dell’ora. Come nel caso del voto del Parlamento su Alfonso Papa e Alberto Tedesco. Arrestato il primo, salvato il secondo. È la Lega a umori alterni.

La soluzione di tanta confusione è stata passare ai giornali la (falsa) notizia di un gioco delle parti. Ora, a parte il fatto che l’ipotetico gioco sarebbe venuto proprio male, certo non si risolve così il problema della disaffezione dei votanti, storicamente contrari ai giochetti di palazzo. Il sondaggista Renato Mannheimer lo ha studiato bene: è un elettorato, quello leghista, che è qualcosa di più e di diverso dal classico militante arrabbiato utente di Radio Padania. L’elettore classico appartiene invece al ceto medio, forse atipico, ma medio, che si aspetta(va) ben altro dal Carroccio: meno tasse, più infrastrutture, un federalismo non posticcio. Un ceto oggi spaccato in due, da un lato gli antigovernativi, dall’altro i filocentrodestra. Nel mezzo, Bossi.

Per rimettere tutto assieme, al Senatùr servirebbe una scossa epocale. L’aveva pianificata, in verità: la scelta del suo successore. Ma è finita nel nulla. Come è in uso nell’aristocrazia, «Umberto Magno» (titolo di un fortunato libro di Leonardo Facco) voleva lasciare l’impero padano al figlio, Renzo I, detto «il Trota» (LEGGI QUI DEL SUO DIPLOMA). Racconta a Panorama una gola profonda leghista, «iscritta» al cerchio magico del Senatùr: «Sarebbe potuto accadere già al raduno di Pontida del 19 giugno 2011». Immaginate la scena: «Il padre che abbraccia il figlio e dice: da oggi è lui il nuovo capo della Lega, il nostro capo, portiamogli rispetto». Ci sarebbe stata una rivolta. «No» replica il cerchista magico «difficilmente qualcuno avrebbe mai avuto il coraggio di opporsi, anche per un’altra ragione, assai seria». La seguente: «Umberto è stanco, vorrebbe fare soltanto il padre nobile». Del figlio principe.

Ciononostante, i maronisti si sarebbero rivoltati. È vero infatti che ancora a maggio 2011 Bossi era il padrone assoluto della Lega. Ma tornare indietro non si può. E il curriculum di Renzo, consigliere regionale lombardo per concessione familiare, non è in linea con un partito nato contro privilegi e nepotismi. «Non si barattano i valori guida con una poltrona!» urlava l’Umberto Magno di un tempo, che assicurava «assoluta trasparenza contro ogni forma di clientelismo». Alla fine della fiera, dicono i critici, come è in uso a «Roma ladrona», ha invece omaggiato di una poltrona da 11 mila euro al mese suo figlio. Il figlio del re. E forse è stato un bene per entrambi che, assai più della scontata opposizione di Maroni, e delle indagini sui presunti dossier prodotti dall’assessore lombardo Monica Rizzi in favore del Trota, le sconfitte leghiste alle amministrative abbiano reso impossibile la successione dinastica. L’incoronazione del Trota re.

A Pontida Bossi ha dovuto perciò soprassedere. Probabilmente per sempre. E forse, quel giorno, non era casuale nemmeno lo striscione su «Maroni presidente del Consiglio». Forse voleva bilanciare, in anticipo, «il Trota segretario della Lega». Forse.

Fatto sta che l’orazione del Senatùr è stata solitaria, per scansare i capibastone litigiosi. Contestualmente Bossi ha fatto circolare le 12 richieste al governo, con scadenza annessa: 19 agosto 2011. Fra le altre, quella sulla riduzione dei contingenti militari all’estero. Per intendere il livello di disordine: il 26 luglio 2011 i leghisti si sono accapigliati prima di votare il rifinanziamento delle missioni. Non riuscivano a mettersi d’accordo tra loro. Figurarsi col Pdl.

Tranquilli, però: con Umberto Magno in attività la Lega resterà indivisibile, almeno nella forma. Quanto alla sostanza, sotto di lui si combatte per mantenere lo status quo o puntare sul rinnovamento. «Maroni può spendersi sia come candidato premier al di fuori dei poli, in caso di nuova legge elettorale, sia in ticket possibile con Angelino Alfano» svela («Riservatamente, mi raccomando») un maronista entusiasta. E mentre un giorno, forse, i leghisti spiegheranno al mondo perché fanno sempre i carbonari, il deputato del Pd Stefano Graziano dice apertamente: «Se al centrodestra riesce di sostituire l’accoppiata Berlusconi-Bossi con quella Alfano-Maroni, per noi le elezioni si fanno più difficili».

È una soluzione alla quale il Cavaliere sta già lavorando, il Senatùr no. Papa o re che sia, corre comunque il rischio di subirla.

*TRATTO DA “PANORAMA”

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